Premio letterario 'Provincia cronica' prima edizione
Fabrizio Mallarino - E' scappata Michina
L’è scapoia Michina è una delle frasi che meglio ricordo dei miei cinque anni: succede spesso di riallacciare i diversi periodi della propria vita a qualche piccolo evento, a qualche parola persa nel tempo, quasi a voler colorare quei primi anni in bianco e nero, senza memoria. I quattro anni me li ricordo per un pizzicotto sadico di Suor Anna all’asilo, punizione per aver parlato durante le preghiere, uno di quei pizzicotti che si danno afferrando la pelle fra la punta del pollice e la seconda falange dell’indice, per poi applicare una torsione in senso antiorario e sottolineare così la tua superiorità. Quella scopa di legno tutta denti di suor Anna ci era riuscita. A proposito, la frase che avevo detto al mio amico Marco Denti Marci era “domani è il mio compleanno”. Zac! Pizzicotto . Fanculo suor Anna: ora te lo posso dire.
Il ricordo dei cinque anni è altrettanto nitido ma fortunatamente senza pene corporali.
“L’è scapoia Michina” , E’ scappata Michina, ha detto con tutta calma Elsa, la vicina di casa di mia nonna dopo essersi presentata con la divisa d’ordinanza: ciabatte di pelle col buco sull’alluce, gonna blu scura a fiorellini bianchi, maglia bordeaux con i bottoni e scialle marrone fatto a mano. Collant color pelle spessi due dita, naturalmente. “E dov’è andata questa volta?” ha chiesto mia nonna. “Cosa ne so io, Nella, so solo che l’è scapoia” . A qual punto mia nonna si gira e mi guarda: erano le undici di sera e io stavo per andare a dormire (fossi stato a casa dei miei alle nove e mezza sarebbero iniziati i casini ma dalla nonna tutto è possibile). “Ci tocca uscire, Ugo”. E vai! I miei occhi si sono illuminati e il sonno che minacciava di invadermi era improvvisamente scomparso. I muri della casa erano diventati subito bassi e stretti, la casa era piccola, e la strada buia di notte mi avrebbe assicurato mille avventure.
“Ma tuo nipote lascialo da me, tanto io ho mal di gambe e non esco certo a cercare quella vecchia matta” disse Elsa, che quando doveva dare brutte notizie la lingua le funzionava da dio, ma quando doveva aiutare diventava improvvisamente artritica e dolorante come una aereo caduto in mare . “Nonono nonna! Voglio venire con te! L’hai detto! E poi da Elsa non riesco a dormire, russa come un treno! No, dai, fammi venire con te a cercare Michina! Ho la vista buona e conosco tutto il paese” “Non è vero che russo, maleducato! “ aveva obiettato Elsa “Ma se lo sanno tutti, Elsa! Ti sento persino dai muri, certe notti! E sì che saranno vent’anni che vivi sola…” aveva replicato mia nonna, che quanto a lingua non era mai stata battuta da nessuno nel paese. “Sei sempre acida e maleducata, Nella, proprio come tuo nipote! “ “E non ti offendere! Vai pure in casa e aspetta, che ci pensiamo io e Ugo a cercare Michina. Chi altri lo sa?” “Mah, io ho parlato solo con qualcuno…Guido il mois, Cesarina, Badarot, il Pal, Marasso, Carleto, “ Va beh, scendiamo Ugo, che Elsa rimette a posto casa sua” “Avete fretta?” chiese Elsa” e poi casa mia è pulita e sistemata, cosa credi? “Allora Elsa, invece di parlare, metti un po’ a posto anche qua dentro, che Ugo è un disastro, me la mette sottosopra ogni volta che entra…” “Adesso sono diventata una donna di servizio! Ah, bell’affare”. “Come si dice: la pulizia sta male solo nel portafogli”.
Così, con Elsa a fare le pulizie senza alcun motivo alle undici di sera (solo la sua mancanza di cervello) io e mia nonna siamo scesi verso la piazza del paese e lì c’era già un gruppo di persone con lampade e persino un paio di torce elettriche. Sì, perché io ora ho cinquant’anni, e Michina si è persa nel cinquantacinque. Oddio, a essere precisi si era già persa l’anno prima due volte e nel cinquantatré una volta. Quell’anno era la prima volta e si era ad agosto, il che lasciava aperte le possibilità per un’ulteriore fuga. Che non ci fu . Perché, mi spiace ma ve lo anticipo, Michina nessuno l’ha più trovata. “Dispersa” è stata considerata, come le vittime del mare o dell’aria i cui corpi non vengono ritrovati, o come nei terremoti, o nelle alluvioni. Solamente che Michina non aveva mai preso l’aereo, né la nave, e nel paese di mia nonna si è registrata una sola scossa sismica dal 1910 a oggi, scossa di cui tutti gli abitanti sono venuti a sapere dal sindaco , e il sindaco a sua volta ne era venuto a conoscenza da non so più quale ufficio con sommo stupore “Io non ho sentito niente” aveva detto al funzionario.
La storia di Michina è talmente comune che si può riassumere in otto parole: vedova, ottantenne, bassa, sorridente, seduta, sarta, magra, smemorata. L’ultimo aggettivo era chiaramente il motivo delle sue fughe. Michina ai giorni nostri sarebbe in qualche pensionato, uno di quegli horror luna park che si vedono ogni tanto in televisione. Era senza figli e vedova; abitava nel centro della piazza, e questa era sempre stata la sua salvezza. “Ci sei già stata da Michina?” era la domanda di rito del paese tra le sette del mattino e le nove di sera. Tutti facevano un salto da lei a vedere come stava, a metterle un po’ a posto la casa, a darle una mano per la cucina, anche se in fondo se la cavava bene anche da sola. Aveva un unico problema: dimenticava. La luce accesa, la radio accesa, la caffettiera sul fornello… Una volta Guido il mois (Guido il matto) ha visto uscire del fumo nero dalla cucina ed è corso su: la una pentola, oramai rosso fuoco, era sul fornello, il manico di plastica completamente fuso che fumava e puzzava e Michina che guardava tranquillamente fuori dalla finestra. “Michina! Ma non vedi?” “Cosa? Ah, oh, Signur…Eh eh…” e ridacchiava e intanto Guido il matto le aveva salvato la pelle: e farsela salvare da uno con un soprannome del genere non è cosa da poco. Michina ridacchiava sempre, questo lo ricordo bene. D’estate era seduta su una sedia di vimini in piazza, sotto casa sua, le passavo vicino e lei mi dava una carezza con quelle mani rugose, dure e appuntite, abituate alla precisione di una sarta e mi diceva : "eh eh... che bel bambìn... sei tutto tua madre ” e mia nonna (paterna) s’incazzava come ogni suocera che si rispetti. Michina rideva, rideva sempre, inconsapevole della sua memoria, sempre con quel sorriso sulle labbra. Tutto qui. Allora non c’erano i mille nomi di oggi per definire gli incubi della vecchiaia: Halzahimer, Parkinson e tutti gli altri. Oggi abbiamo un nome per ogni demone , allora si aveva la consapevolezza della vecchiaia e basta. Non so cosa sia meglio, so soltanto che Michina rideva, rideva .
“E’ scappata un’altra volta, Criste” è stata la prima cosa che ha detto Badarot quando ha visto mia nonna. Badarot era un muratore, alto un metro e sessanta e da come me lo ricordo è sempre rimasto uguale: una boccia pelata al posto della testa circondata da una corona di capelli grigi, una faccia pienotta e sempre sorridente, ma con gli occhi seri, non so se avete presente: uno di quelli che ridono e aspettano che anche tu faccia altrettanto.
E votava socialista.
E avrebbe votato socialista fino alla fine. A quei tempi, quand’ero ragazzino e mio padre democristiano , riuscivo a scroccare un gelato al bar “Da Nani” solamente urlando viva i socialisti! con grande disappunto di mio padre.
“Nessuno di voi l’ha vista?” ha chiesto mia nonna. “State sempre in giro fino a tardi voialtri, a bere tutta la sera e nessuno l’ha vista?”
“Proprio per questo non l’abbiamo vista!” ha detto Carlo “il vino ti fa vedere meglio da vicino, mica da lontano!”. Carlo, ovviamente, era un amico del bicchiere e delle carte. Anzi, era lui a organizzare ogni tre mesi un torneo a ramino con in palio premi quali: damigiana da quaranta litri di barbera, pane gratis per una settimana, due litri di grappa… E via così. Sì, eravamo in pieno dopoguerra, e al mio paese si stava bene, la fame non si sentiva di sicuro: certo non ce la godevamo come adesso, ma poco importa: una canna da pesca, un tappo di sughero e un pezzo di lenza rubata a qualche pescatore addormentato sulla riva del fiume bastavano a farci contenti. E poi la nonna mi dava sempre due soldi per un gelato o una gassosa.
“Allora facciamo così” ha detto Gianfranco, il sindaco “ dividiamoci in quattro gruppi da otto, e gli altri se ne vanno a dormire, che tanto la ritroviamo come al solito. Un gruppo vada verso la ferrovia, un altro al castello, uno al fiume e l’ultimo verso il cimitero. Dov’era finita l’ultima volta?”
“A pregare su una tomba che credeva fosse la tua” disse Badarot ridendo “Oh… povero Gianfranco, era così buono, così buono, e poi era un buon sindaco… eh eh...” diceva così.
Gianfranco non replicò nulla, ma notai la sua mano destra infilarsi in una tasca dei calzoni e lavorare un po’.
“Io, mio nipote e altri sei andiamo al castello che è più vicino e io ho male alle gambe. Tanto sarà finita lì secondo me. Ultimamente fissava sempre i piccioni che facevano il nido lassù in cima” disse mia nonna.
“A proposito sindaco” era intervenuto Nicolino, il più vecchio del paese che le guerre le aveva fatte tutte e due “quand’è che ci autorizzi a sparare su quei bastardi che portano malattie? Eh, quando?” e aveva quei maledetti occhi di chi si rivede giovane senza esserlo, occhi che spero di non avere mai un giorno.
“Niculen, ti ho già detto che ci vuole un’autorizzazione della provincia, e poi se anche ce la concedono non toccherà a te andare a sparare, ci sono addetti ai lavori, uomini specializzati…”
“A sparare ai piccioni? Oh, Signur, ma se sparavo ai cristiani… chi è più qualificato di me?”
“Va bene Niculen, ti lascerò sparare qualche colpo, va bene?” e così l’aveva calmato: tanto il fucile di Niculen l’aveva in deposito suo figlio, onde evitare colpi di testa del vecchio.
“Sentite” disse mia nonna a un certo punto, ma ci vogliamo muovere? “Va bene che Michina non è mai andata molto lontana con le sue fughe, ma più passa il tempo e peggio potrebbe mettersi per lei…”
“Nella ha ragione“, disse il sindaco ripresosi la sua autorità “allora facciamo come stabilito. Io vado verso la ferrovia con altri sette, voialtri dividetevi per otto e andate nei quattro punti. Sveglia!”
“Che noioso quando fa il convinto… Tanto io il voto mica gliel’ho dato, a quel baciapile…” disse Badarot a bassa voce, rivolgendosi a Michele , che neanche lo ascoltava dalla voglia di tornarsene a casa a bersi l’ultimo bicchiere.
Così, io mia nonna Badarot e altri sei ci dirigemmo verso il castello a cercare Michina.
Il castello del paese in realtà non è un castello ma la classica torre medioevale costruita per avvistare eventuali nemici. Oggi è stata ristrutturata, e una scaletta a pioli la attraversa al suo interno permettendo di accedervi tranquillamente e in tutta sicurezza. Allora invece era un vero pericolo e per noi ragazzini era il posto più proibito, e quindi il più ambito di tutto il paese. Nessun bambino sopra i dieci anni aveva evitato quel battesimo di fuoco: arrampicarsi su per quelle scale di pietra umide e scivolose, passare sotto quei pietroni che di notte sembravamo avere gli occhi e arrivare fino in cima, e quindi tirare un urlo liberatorio. Poi gli altri lo avrebbero raggiunto sancendone l’avvenuta maturità : sverginarsi con la torre equivaleva a entrare di diritto nell’élite della banda del paese, e anch’io vi ero entrato. Me la ricordo ancora la notte dell’assalto alla torre. Era settembre e il pomeriggio aveva piovuto, rendendo tutto più difficoltoso del previsto “Io rimanderei” mi ero azzardato a dire a Marco, il leader, che senza neanche degnarmi di uno sguardo era salito sulla bicicletta e si era voltato per andarsene. Sapevo benissimo che nel giro di pochi secondi anche gli altri ragazzi avrebbero fatto altrettanto, quindi mi affrettai a fare dietrofront con un “Aspettate! Ci Sto!” urlato a squarciagola e, ahimè, mi toccò.
Ci ritrovammo verso le nove e mezza di sera, i vecchi ci lasciavano uscire tranquillamente perché era tutto tranquillo, io al centro di un cerchio e gli altri intorno “Sei pronto a diventare uomo?” mi chiese Marco.
“Sì” risposi io non troppo sicuro. In fondo mi piaceva essere bambino.
“Allora dovrai scalare la torre”
“Lo so…”
“Silenzio! Prima c’è un’altra prova… Portate la prima prova da superare”.
Con orrore vidi uno dei ragazzi avvicinarsi con un enorme lumacone nero, di quelli che nemmeno si mangiano, e avvicinarmelo minacciosoamente alla bocca.
“Sei pronto a giurare fedeltà al nostro gruppo e a fare tutto quello che il gruppo ti chiederà e a mantenere il segreto su ciò che il gruppo farà?” chiese Marco, e a volte mi chiedo ancora oggi se per caso suo padre non sia stato un massone.
“S-sì” dissi “lo sono, ma cosa devo fare?”
“Leccare la lumaca. Una prova di coraggio. Anche noi abbiamo dovuto superarla”
“Tu cosa hai fatto?” chiesi a Marco, curioso di vedere se diceva il vero.
“Ho mangiato una lucertola. Mi è venuta la diarrea dopo, ma è servito a farmi diventare uomo”
“Io ho tenuto in mano un’ortica per due minuti di fila” disse un altro.
“Io mi sono fatto graffiare di proposito da un gatto”
“Va bene, va bene” dissi prima che tirassero fuori qualcosa di ancora più fantasioso da farmi fare “lecco, lecco” e così, Gesù, l’ho fatto davvero.
Marco teneva quell’affare molle e viscido sul palmo della mano destra e me lo avvicinava con il braccio teso e diritto, e io chiusi gli occhi. Tirai fuori la lingua e leccai, due, tre, quattro volte, dopodiché sputai come un dannato. Quando riaprii gli occhi la lumaca era sotto il tacco destro di Marco e io stavo meglio di lei.
“La prima prova è superata. Ora: Scala – La - Torre”
“Scala la torre!” gridavano tutti insieme “Scala la torre!” e quello era peggio di tutto, ragazzi. Anche perché i nostri vecchi ci terrorizzavano con mitici racconti sui nemici che venivano catturati nell’anno mille e impiccati lassù in alto e sulle loro anime in cerca di sangue dei giovani paesani del posto… Iniziai la “scalata” in silenzio, senza mai voltarmi indietro, ben sapendo che tutti mi stavano osservando in quel momento solenne. Le scale di pietra erano umide e viscide, e ci si arrivava da un foro alto circa un metro e largo mezzo, alla base della torre. Anni prima la porta d’ingresso era stata sbarrata per volere dei genitori non appena avevano scoperto che i loro figli si arrampicavano una notte sì e una no su per quelle scale pericolose. Era una tradizione antica, che comunque non ha mai visto la morte di alcuno tra i piccoli predatori dell’arca perduta. Nemmeno il sottoscritto, che li ha scalati uno alla volta quei gradini, facendosela sotto tutte le volte, ma mai come quella prima volta. Da solo. Con il rumore delle gocce d’acqua, tic tic tic , che mi accompagnavano i passi e tic tic tic sono scivolato e mi sono sbucciato un ginocchio e tic tic tic sono caduto e mi sono spellato un gomito e alla fine ce l’ho fatta e sono diventato uomo anch’io.
Ho un divorzio alle spalle e una separazione in atto, e non vedo i miei figli da quasi un mese, ma ragazzi quella torre l’ho scalata. Eccome.
“Michiina!” ha cominciato a gridare mia nonna “Michiina!” ha continuato Badarot e poi tutti gli altri e tra loro anch’io. Proseguimmo per un po’, camminando piano e guardandoci intorno con torce e lampade, facendoci strada verso il castello, sempre più vicino, ma niente.
“Corri, và a vedere dal campo delle bocce, ma fai attenzione a non cadere” mi disse mia nonna.
Naturalmente mi precipitai: il campo di bocce cacchio, un altro luogo inespugnabile per i nostri di quindici anni! Una vera reliquia in paese, che poi altro non era che uno spiazzale di venti metri per dieci in sabbia e terra battuta dove i vecchi e i meno vecchi del paese andavano a fare la partitina ogni giorno dopo le sei e ci scommettevano su un bianchino o un Campari e guai se i bambini venivano sorpresi a giocare là dentro, a insudiciare la sabbia, a fare i buchi per terra , che poi come si fa a giocare bene? Marco si era beccato dieci giorni di clausura da suo padre per essersi fatto prendere. Naturalmente, suo padre era il presidente della “Bocciofila” del paese.
Ma se anche entrare dentro quel campo era per me emozionante e i miei occhi rimanevano vigili ed eccitati (domani te la racconto, grande capo, e ne dovrai mangiare di lucertole per arrivare al mio livello) Michina non si trovava.
“Di qua!” sentii gridare e riconobbi la voce di Michele.
“Ugo! Dai, che Michele ha trovato qualcosa!”
“Non io, il sindaco! Il sindaco!”
“Ti pareva” sentii bofonchiare da Badarot “quello è sempre toccato dallo Spirito Santo”.
Ci riunimmo tutti in gruppo e seguimmo Michele verso la ferrovia.
“Oh, Signur, fa’ che non sia rimasta sotto il treno…” disse qualcuno.
“Cretino, il treno passa alle nove e poi alle undici. Michina si è persa verso le dieci. Alle nove e mezzo c’era Teresa da lei” disse mia nonna. Arrivati sul posto, c’erano già gli altri gruppi tutti intorno al sindaco che stava illuminando qualcosa per terra.
“Cos’è cos’è?” chiedevano tutti e io che ero il più piccolo mi infilai tra le gambe degli latri spettatori e vidi le ciabatte in panno di Michina.
“Oh, dio, si è uccisa” disse Michele
“Perché invece di dire sciocchezze non stai zitto e ti metti a cercare meglio? Avanti, dividiamoci. Voi cercate lungo la scarpata, io, mio nipote e altri due proseguiamo lungo i binari.
Proseguimmo eccome lungo i binari. Tutta notte, fino all’alba. E così anche gli altri del paese.
Il giorno dopo arrivarono anche Carabinieri e Polizia, e la cosa si fece seria.
Michina era scappata davvero, stavolta. Tutti quanti avevano preso il fatto sotto gamba, tanto Michina torna sempre, ma tutti quanti si erano sbagliati. Michina non è mai tornata. A parte le sue ciabatte lungo la ferrovia nessuno seppe mai più niente di lei. Non si era arrampicata sulla torre e non era caduta. Non era nemmeno finita dentro il fiume (per la verità un rigagnolo) e non era annegata. E nemmeno si era seppellita sotto la tomba di qualcun altro al cimitero. Semplicemente, Michina se n'era andata. Punto e basta.
Io non credo nei fenomeni paranormali e credo anzi anche sia finita in qualche buco, in qualche scarpata o nelle mani di qualche pazzo assetato di vecchie non più illibate ma legnose. Credo che Michina non se la sia goduta negli ultimi attimi di vita. Ma credo che nessuno di noi se la goda in quei momenti.
Credo questo, ma VOGLIO credere che Michina se ne sia semplicemente andata, con un po' di rumore in paese ma neanche troppo dopo tutto, con qualche parola del sindaco e qualche sparata di un socialista che del socialismo non sapeva nulla. Se credessi nel paranormale direi che si è addormentata e smaterializzata, perché qui il suo compito era finito. Non ricordava quasi più nulla, sorrideva a tutti, senza scegliere chi aveva di fronte, perché questo era il suo carattere, punto e basta. Vorrei quasi credere che la sua scomparsa sia coincisa con la fine della sua malattia perché era lei a volerlo, ma so che non è così. In ogni caso, come ho già detto, non abbiamo avuto il tempo di classificarla con qualche orrenda bestemmia psichiatrica: lei non si ricordava degli altri e da quel giorno anche gli altri si sarebbero dimenticati un po' alla vota di lei. Oggi quasi più nessuno si ricorda di Michina, della sua sedia di vimini e delle sua ciabatte di pezza. I miei figli a momenti non si ricordano nemmeno più di me, ma non voglio fare la vittima: casi della vita. Siamo rimasti in pochi del paese: Badarot, Michele, il sindaco e mia nonna sono morti e così anche i Socialisti e la DC, sostituiti da alcuni spauracchi di cui ci ricorderemo come Michina si ricordava del gas acceso.
No ho più rivisto nessuno del vecchio gruppo scala-torre, a parte Marco un paio di anni fa, e ci ha messo un po' di tempo per riconoscermi.
Eppure, io non ho ancora dimenticato certi dettagli, certi istanti silenziosi del paese che ancora oggi mi urlano nelle orecchie.
Schiaccio i miei tasti, e la memoria resta.
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