Premio letterario 'Provincia cronica' prima edizione
Gianroberto Viganò - Dalle risaie ai vigneti
Un secco toc-toc alla porta della stanza mi fece svegliare di soprassalto. Era ora di alzarsi. Mi infilai le ciabatte per avvicinarmi all’uscio. Rassicurai l’albergatore che avevo sentito il segnale di sveglia e che con Marchetti, mio compagno di squadra nonché di camera per l’occasione, sarei sceso a far colazione di lì a poco.
L’iniziativa di prenotare un albergo per evitare una levataccia era partita dal nostro direttore sportivo, il buon Carpineti, che aveva pianificato questa trasferta per darci modo di partecipare ad una gloriosa classica per dilettanti del ciclismo piemontese.
Da parte nostra, non eravamo per nulla contenti di trascorrere il Sabato sera lontani da casa in uno sperduto hotel a due stelle del Novarese, ma Carpineti, un po’ facendo la voce grossa, un po’ decantando il prestigio della gara, ci convinse.
Prima di vestirmi, detti uno scrollone a Marchetti, che dormiva ancora beatamente.
“Luca, svegliati. Sono le 7.”
“Le 7? E’ ancora l’alba”. Sbuffò, rigirandosi nelle lenzuola.
“Forza, in piedi! Il Capo è già pronto e ci aspetta nella hall per la colazione.”
La parola Capo, che per Marchetti identificava Carpineti, lo smosse dal letto.
La nostra squadra, l’Unione Ciclistica Ceredo, aveva mezzi modesti ed era composta da quattro ragazzotti di belle speranze: Silvestro Vanotti, Fabio Zanzottera, Luca Marchetti e da me, Paolo Sedaboni.
Vanotti era un lungagnone bergamasco, una sorta di armadio a due ante, alto quasi due metri. Faceva l’operaio in un’azienda metalmeccanica delle sue parti e, grazie ai turni, riusciva ad allenarsi.
Era buono come il pane, anche se un po’ ingenuo.Vedeva il ciclismo come un’opportunità per affrancarsi dal lavoro in fabbrica, sperando un giorno in un buon ingaggio. La sua idea fissa era di finire sulle cronache sportive dell’Eco di Bergamo e portava con sé un album, dove in modo maniacale ritagliava tutti gli articoli, che riportavano un suo timido allungo, un suo oscuro piazzamento nei primi venti o la sua compartecipazione ad una fuga di scarso interesse.
Zanzottera aveva un paio di anni in più ed era un velocista tutto pepe. Era soprannominato il “Rogna”, perché ogni sprint di paese, ogni banalissimo traguardo volante per un prosciutto o una bottiglia di vino era un’ottima occasione per venire alle mani con qualcuno. Non era un amante della bicicletta, ma correre era un pretesto per evitare di lavorare nel panificio del padre, il quale invece viveva di pane, per professione, e ciclismo, per passione.
Marchetti era il ragazzo con cui avevo stretto maggior amicizia e, fra noi quattro, era sulla carta il più talentuoso. Nelle categorie giovanili aveva vinto parecchio, ma non aveva la testa del corridore. Amava buttare tutto in burla e lo consideravamo il mattacchione del gruppo.
Carpineti, che era stato un mediocre professionista degli anni ’70, prendeva estremamente sul serio il suo ruolo di direttore sportivo, mentre Marchetti con i suoi comportamenti gli ricordava che eravamo solo quattro ragazzi con tanta voglia di vivere.
Fra i due si era instaurato un rapporto di odio-amore: Marchetti chiamava Carpineti “Capo” e quest’ultimo gli aveva affibbiato il nomignolo “Tiraculo”.
Infine c’ero io. Non è mai semplice descrivere se stessi. Diciamo che avevo trascorsi come lupetto, come componente della compagnia teatrale della parrocchia e come terzino destro della Milanesiana, insomma, al di là di qualche buon risultato in gare con arrivo in salita, un ragazzo con tante esperienze lasciate a metà per poter pensare di diventare seriamente un buon ciclista.
A dirigere questi valenti alfieri dell’Unione Ciclistica Ceredo vi era il più volte citato Bonifacio Carpineti, rappresentante di articoli casalinghi, il quale accettava ogni Domenica il martirio di sopportare i nostri alterni risultati per l’infinito amore verso le due ruote.
Il nostro direttore sportivo era un personaggio, un’autentica sagoma. Era un omino grassoccio con le calvizie celate da un ardito riporto, sempre ben curato, e con i pantaloni sostenuti da un paio di bretelle di colore diverso in funzione dell’umore.
Nel ritiro invernale in Liguria, prima della stagione agonistica, passava serate e serate a tormentarci con i suoi racconti e le sue sfide, in parte vere e per la gran parte inventate con i vari Baronchelli, con i fratelli Algeri, con i Turrini ed i Vattelapesca.
Mentre Carpineti s’infervorava nelle sue narrazioni, Vanotti restava estasiato, Zanzottera leggeva Alan Ford ed io dormivo ad occhi aperti. Marchetti invece, sornione come un coccodrillo a caccia della preda, faceva finta di nulla, immagazzinando date ed episodi per l’occasione più opportuna.
Una sera, perso fra i suoi vagheggiamenti e forse agevolato da qualche bicchiere di Vermentino, Carpineti esagerò propinandoci autentiche banalità per alte strategie ciclistiche.
Il tema del suo delirio era la richiesta d’assistenza: “Se devo parlare con uno di voi in corsa, darò due colpi di clacson, così scivolerete in coda al gruppo per alzare la mano. A quel punto, il giudice di gara mi darà il permesso di affiancarvi.”
Vanotti era a bocca aperta, Zanzottera sbadigliava annoiato, mentre a Marchetti s’illuminavano gli occhi.
“Scusi, Capo”, intervenne. “Non aveva forse detto che Lei perse la Coppa Imperia del 1978 perché si defilò in coda al gruppo scambiando il colpo di clacson di una vettura qualsiasi per quello della sua ammiraglia?”
“Beh…Sì…Con questo?” Balbettò Carpineti.
“Propongo di dotare la nostra vettura di una tromba con qualche motivetto originale per distinguerla dalle altre.” Disse con fare convinto l’infido Marchetti.
Preso alla sprovvista, Carpineti trovò la proposta geniale ed acconsentì.
Il giorno seguente la nostra macchina non aveva più un normale clacson, bensì il motivetto della Cucaracha e così diventammo in breve tempo lo zimbello di tutte le società ciclistiche lombarde.
Non pago di questo piccolo successo, Marchetti meditava di consumare l’intera vendetta e, dopo le prime pedalate dell’allenamento pomeridiano, alzò improvvisamente il braccio destro.
Carpineti si avvicinò incuriosito con l’ammiraglia, sporgendosi dal finestrino; “Che c’è? Hai forato?”
“No, stavo semplicemente facendo una prova di chiamata d’assistenza.”
Finita la colazione, lasciammo l’albergo per dirigerci al ritrovo della gara. Il paese era un piccolo borgo agricolo e la Domenica mattina pareva più assonnato di Marchetti.
Ritirammo i numeri e firmammo il foglio di partenza, per poi effettuare la consueta riunione tecnica per studiare il percorso ed assegnare i compiti.
Carpineti con la sua tipica parlata lodigiana spianava tutte le z in s: “L’inisio da Parussaro ad Asti è piatto come un biliardo, poi si entra nelle Langhe e cominciano le salite. Si tratta di strappi brevi, ma secchi, di quelli che fan male. L’arrivo è in cima a La Morra, però è inutile che vi spieghi dov’è, perché per voi La Morra e San Giacomo Caduto in Mare sono la medesima cosa. Il circuito finale è da ripetere due volte, quindi, se sarete ancora in gara, studierete l’arrivo nel corso del primo passaggio.”
Le sue spiegazioni, benché tradissero poca fiducia nei nostri confronti, erano sempre colorite, ma efficaci; “Vanotti si occuperà di annullare gli attacchi nel tratto di pianura, Sansottera farà le volate per i traguardi volanti, Marchetti cercherà di entrare nelle fughe inisiali, mentre Sedaboni, che è il meno scarso in salita, curerà il finale.”
Sul programma stampato dall’organizzazione vi era riprodotto il percorso della gara con particolare evidenza al circuito conclusivo, che suonava come una cantilena “La Morra, Novello, Dogliani, Serralunga, Pollenzo, La Morra”.
L’altimetria del finale sembrava il cardiogramma di un cuore impazzito.
Dalle mie parti le salite oramai le conoscevo metro per metro. L’erta verso il Santuario della Madonna del Ghisallo era per me un libro aperto: il primo tratto di salita finisce a Longone, nei pressi della casa di Carlo Emilio Gadda. In quel punto uno sbiadito cartello turistico giallonero indica che mancano dieci chilometri alla vetta. Al lago del Segrino la strada spiana ed è il momento di rifocillarsi, poi si supera il pavè di Canzo, la stazione di Asso, la galleria di Valbrona e, quando la strada costeggia la chiesa romanica di Sant’Alessandro con il suo bel campanile, cominciano le danze. Alla croce di Barni la strada s’impenna sotto i pedali, si entra in Magreglio e, dopo una leggera curva a destra nella strettoia in paese, bisogna dar tutto in apnea fino alla chiesetta.
Ebbi una felice intuizione. Presi dalla cassetta dagli attrezzi un paio di forbici ed il nastro adesivo trasparente. Ritagliai dal volantino l’altimetria del finale, ricavandone una strisciolina di carta da applicare sulla pipa del manubrio.
Vanotti mi chiese le forbici e imitò la mia operazione, mentre Zanzottera con ghigno sardonico lo canzonava: “Silvestro, questa corsa si chiama “Dalle risaie ai vigneti”, ma il menu riservato a noi due prevede il primo senza alcolici.”
Vanotti scrollò le spalle e sistemò la cartina, che sulla pipa del suo manubrio pareva piccina, piccina.
Il ciclista che si prepara alla gara è come un cavaliere prima di un torneo medievale. Vi è una liturgia tramandata da generazioni e generazioni di corridori; la vestizione, il foglio di carta sotto la maglia per proteggersi dall’aria, i panini al latte con la marmellata avvolti nella stagnola, la preparazione della borraccia, i massaggi con l’olio canforato, il controllo della pressione dei tubolari ed infine il riscaldamento per verificare che tutto sia a posto.
Questi momenti di attesa in vista della partenza mi sono sempre piaciuti. Senti che l’adrenalina ti pervade e non vedi l’ora che il mossiere abbassi la bandierina per scaricare la tensione con un paio di pedalate.
A dire il vero, era oramai metà Settembre e le gare di fine stagione ricordano gli ultimi giorni di scuola; la voglia è poca e si pensa a fare progetti per il futuro.
Una volta preso il via, Marchetti ed io stavamo placidamente in coda al gruppo a commentare la settimana di vacanza al mare concessaci da Carpineti. Discutevamo dei nostri progetti dopo la maturità e Marchetti mi parlava della patente appena acquisita. Si lagnava del fatto che il padre non lo lasciava guidare da solo e che neppure Carpineti si fidava a concedergli la vettura-ammiraglia nei trasferimenti, preferendogli Zanzottera.
Si pedalava ad andatura tranquilla ed il gruppo occupava l’intera sede stradale. Dovevamo percorrere un lungo rettilineo che si perdeva nell’orizzonte, mentre a destra e a sinistra eravamo circondati dalle risaie, che erano tinte di biondo in attesa della raccolta.
Non era un paesaggio monotono, perché vi era un continuo svolazzare di uccelli sopra le nostre teste. Anzi, per chilometri e chilometri non si vedeva anima viva, e i volatili nelle risaie erano gli unici spettatori. Erano incuriositi dal passaggio di questo serpentone multicolore, che si snodava o appallottolava in funzione degli scatti e dei rallentamenti.
Marchetti, che seguiva il padre nelle battute di caccia dalle parti di Barengo, fungeva da Cicerone: “Guarda là un airone cenerino! Guarda lì una nitticora!”
La nostra divagazione ornitologica fu interrotta dal suono della Cucaracha. Carpineti, nonostante i rimbrotti della giuria, si era portato in coda al gruppo per sbraitare al nostro indirizzo: “Voi due!!! Tè? Caffè? Pasticcini? Tiraculo, vai avanti a combinare qualcosa di buono!”
Marchetti borbottò qualcosa d’incomprensibile e si mise a risalire il gruppo sulla destra per portarsi nelle prime posizioni, mentre io restavo in coda secondo le consegne.
Riflettevo sull’esito della maturità, sulla voglia di iscrivermi all’Università e soprattutto se continuare a gareggiare o meno.
In sella ad una bicicletta mi era sempre risultato più facile pensare. Era un modo di rilassarmi, dandomi l’opportunità di estraniarmi dal contesto. Per questo motivo accettavo a vent’anni di osservare una vita quasi monacale a differenza di tanti miei coetanei.
Un cartello indicava l’entrata in provincia di Vercelli.
In Piemonte i temporali hanno un gran rispetto per le competenze territoriali, difatti, lasciato alle spalle il bel tempo, dopo qualche timida goccia seguì un forte scroscio.
Alzai la testa, oltre la sagoma del gruppo davanti a me, e vidi in lontananza un piccolo centro. Secondo la cartina, poco più avanti vi era un traguardo di paese ed era compito di Zanzottera impegnarsi per la volata.
In vista dello sprint, la velocità aumentava progressivamente, sinchè superammo il punto dov’era posto il premio e scorsi sulla sinistra, in un fossato, Zanzottera con l’acqua fino alle caviglie che imprecava contro tutto e tutti.
Mi portai avanti e chiesi a Marchetti cos’era successo. “Niente, il solito Rogna. Sgomita-tu che sgomito-io ed alla fine l’hanno buttato in un canale.”
Altro cartello, altra provincia ovvero Asti, ed il sole ritornava a far capolino, asciugando noi poveri ciclisti che sembravamo tanti anatroccoli bagnati.
Nel torpore generale dieci atleti, fra i quali nessuno dell’Unione Ciclistica Ceredo, presero il largo. Li vedevamo davanti a noi guadagnare terreno, prima venti secondi, poi trenta, quaranta ed infine erano diventati un puntino lontano ed indistinguibile.
“Qui si mette male. Ho la brutta sensazione che quelli in fuga li rivediamo solo all’arrivo”, commentò preoccupato Marchetti. “Mi immagino già il Capo… Oggi fra l’altro ha le bretelle rosse e non è buon segno.”
“Che si fa?” Gli chiesi.
“Ho un’idea.”
Marchetti affiancò Vanotti e cominciarono a parlottare in modo fitto, dopodichè il gigante orobico, come un toro impazzito, cominciò a smanettare col cambio alla ricerca del massimo rapporto, guadagnando la prima posizione in testa al gruppo.
Con le sue potenti leve ci mise tutti in fila indiana ed ad ogni chilometro il plotone si assottigliava perdendo qualche elemento, mentre i battistrada vedevano ridursi inesorabilmente il loro vantaggio.
Alle porte di Asti, Vanotti poneva termine al tentativo dei dieci.
“Ma cosa gli hai detto per scatenare questa reazione?” Domandai incuriosito.
“Nulla…”, sghignazzò Marchetti. “Ho riferito al nostro Silvestro che alla partenza avevo sentito che vi era l’inviato del Corriere Novarese e che la cronaca della gara sarebbe stata riportata nella pagina nazionale dello sport dell’Eco di Bergamo.”
“Sei certo? Mi pare una panzana.”
“Difatti.”
La piatta linea dell’orizzonte era sostituita da placide colline ed una rapida occhiata al percorso mi indicava che, superato il ponte sul Tanaro, avremmo incontrato le prime vere asperità.
All’inizio del primo passaggio, nel tratto in salita verso La Morra, Marchetti ed altri due allungavano.
Vanotti all’imbocco della salita ciondolava in mezzo alla strada come l’ultimo dei mammuth, che sentiva sulle sue spalle tutto il peso della sua specie in estinzione. In breve tempo si staccò dal gruppo.
Per quanto mi riguardava, mi sentivo bene, ma dovevo gestirmi.
Nei momenti di massimo sforzo, ciascun corridore si concentra a modo suo ed i metodi sono i più bizzarri. C’è chi, per restare concentrato, guarda i dorsali degli avversari e scompone le cifre in numeri primi. C’è chi conta mentalmente le pulsazioni o le pedalate al minuto.
Io non faccio tutto questo, io dialogo con la fatica. E’ una compagna fedele ed inseparabile di noi ciclisti. Puoi avere cinque minuti di vantaggio o di ritardo, ma l’unica certezza è la sua presenza. Questa mia amica oggi mi aveva dato appuntamento sulle prime rampe verso La Morra e mi aspettava per darmi consiglio con la sua flebile vocina: “Calma, Paolo. Tranquillo. Non rispondere a tutti gli scatti. Hai davanti Marchetti in fuga. Lascia lavorare gli altri. Controlla il respiro. Cambia rapporto. Pedala agile.”
Durante lo scollinamento, superavo una maglia gialla, una maglia azzurra, una maglia verde, poi un’altra maglia azzurra.
In cima al paese la gente ci incitava, ci spronava a riprendere i tre, segnalando che erano vicini. Per gli adulti avevamo pochi secondi di ritardo, mentre per i bambini, che tendono ad ingigantire tutto, il passivo era incolmabile.
Al contagiri vi era un omino che percuoteva un campanaccio più grande di lui per segnalare l’inizio dell’ultima tornata.
Alla caccia dei primi eravamo rimasti una quindicina e si cominciava la picchiata in discesa verso la Statale in mezzo ai vigneti. La strada verso il fondovalle presentava qualche tornante a gomito, ma era sostanzialmente pedalabile.
Il gruppo degli inseguitori, di cui facevo parte, dava una caccia spietata ai tre di testa.
Il vantaggio scemava poco a poco e nel frattempo si ricominciava a salire verso l’arrivo. Gli ampi tornanti in mezzo ai vigneti consentivano ai tre di vedere noi inseguitori e viceversa. Si consumava così un lento, logorante braccio di ferro.
Dai, Marchetti. Tieni duro. Non mollare. Smettila di voltarti. Guarda avanti.
I fuggitivi erano a vista e me ne stavo coperto in quarta-quinta posizione, sfruttando la scia in attesa degli eventi. All’ultimo chilometro i tre erano oramai ripresi ed una maglia rossa scattò come una saetta sulla destra, superando Marchetti e gli altri due. La fatica ritornava a parlarmi: “Vai, Paolo. Alzati dalla sella. Scatta. Accodati. Bravo, stagli a ruota. Sfrutta la scia. Aspetta gli ultimi duecento metri per superarlo. Ecco. E’ il momento. Adesso, a tutta!!!”
L’arrivo non lo ricordo più. So solo che fui abbracciato da un sacco di persone, fra questi il Rogna e Vanotti, e Carpineti che saltava dall’euforia, mentre il suo riportino ballonzolava in modo incontrollabile.
La gioia era tanta e dopo la premiazione si decise di festeggiare, cenando in una trattoria a Monforte d’Alba a spese di Carpineti. Fra brindisi e risate, decisi che avrei corso anche l’anno seguente, perché non mi potevo perdere questa banda di matti.
Marchetti nel contempo aveva architettato l’ennesima bravata e, dopo aver fatto ubriacare sia Carpineti che Zanzottera, prese le chiavi dell’auto guidando fino a casa accompagnati dall’ inconfondibile suono della Cucaracha.
Ingenuamente molto bello. Un inno alla giovanile spensieratezza. L'incipit non fa presagire granchè, poi sale di tono e diviene spassoso. La descrizione di Vanotti è esilarante. Compliments.
RispondiEliminaHo riso dall'inizio alla fine, complimenti.
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