Premio letterario 'Provincia cronica' prima edizione
Christian Gallucci - Il nulla intorno
Un boato fragoroso. Un oggetto metallico che sbatte contro una cassa. Poi risuona. Deve trattarsi di qualcosa di non molto ingombrante, perché il suono prodotto risulta secco, quasi scheletrico. Mi chiedo cosa potrà mai essere? Immagino quei vasi in balcone in balia delle intemperie cozzare fragorosamente tra loro: una guerra tra specie vegetali che si erano date tregua per qualche millennio su questa terra, e per qualche mese in questo appartamento. Sollevate dall’impatto cominciano a volteggiare, impazzite e trascinate dal vento, vanno a sbattere contro mura e persiane, sempre rincorrendosi nel ristretto spazio aereo del mio balcone. La potenza di fuoco del basilico non è indifferente. È una pianticella piccola ma dal sapore e dall’odore stupendi e sinceramente, che fosse capace di tanta superbia certo non poteva immaginarlo neppure la beaucarnea recurvata, conosciuta col nome d’attacco di “mangiafumo”; quest’ultima, impegnata a stringere alleanze e sodalizi per quella che credeva essere una guerra di logoramento, non si accorge dell’ultimo, sonoro, definitivo colpo assestato dalla malefica piantina odorosa che, forte della sua corazza rinforzata (vaso a forma di parallelepipedo dalle considerevoli dimensioni) riesce a trascinare tutte le altre piante, nemiche e amiche, fuori dal ring e giù, e ancora giù, sull’asfalto rovinato del cortile.
È ricominciata la tregua. L’asfalto del cortile è fatto apposta perché vi possano scorrere, in particolari condizioni atmosferiche, migliaia di rigagnoli d’acqua; e perché i corpi leggeri vi trovino una via di fuga la più breve possibile verso il tombino, mentre i più pesanti possano giacere lì, senza vita ma confortati dal fresco scorrere delle gocce d’acqua, lavati dall’onta della sconfitta, se necessario.
Non rimaneva quindi nulla delle gloriose combattenti, che a gran velocità erano già dirette verso il fiume più vicino; verso il Lambro nel migliore dei casi. I cocci invece, quelli dei vasi del mio balcone, erano lì a terra, e chi li avrebbe spostati? Erano spossati, infranti, scrostati, in procinto di sciogliersi.
Il rumore si fa sempre più promiscuo. Gli scrosci di pioggia cadono su una città deserta ad agosto, a qualche chilometro da Milano. Si sente l’urlo forsennato di qualche allarme, un’automobile che improvvisamente scopre la sua anima e vorrebbe lì le gentili mani del padrone, a disinnescare la sua paura, o forse gradirebbe la mia spranga di ferro per far cessare questo tormento; le urla di qualcuno che, frettolosamente, tenta di perdere meno pezzi possibili dal suo balcone; gli oggetti che cadono e deflagrano; il lampo che illumina a giorno l’incedere del tuono; e il vento, che turbina in ogni direzione con le veneziane che si staccano e gli impianti elettrici che saltano.
Un residuo di coscienza mi suggerisce che doveva trattarsi dello stendibiancheria. Che illusione, nessuna lotta tra organismi vegetali per la supremazia sul territorio. O forse anche lo stendibiancheria ne è rimasto coinvolto, con quella foga che si ritrova nel voler sempre essere più inanimato di chiunque altro. Anche di me, in questo istante. Sto immaginando i miei vestiti, simbolicamente sparsi in mezzo al cortile; lo stendibiancheria, simbolicamente finito in qualche altro balcone.
Assaporo la mia guarigione, e nel silenzio strano della camera, ovattato dalla musica e dall’ ardore di questa pioggia, mi sento rinascere. In mezzo a tutti questi elementi che lottano, il mio corpo ha finalmente smesso di soffrire. Quando lo fa è doloroso, e io sono stato in balia delle sue risoluzioni per almeno una settimana. Sono libero, ed è giunto il momento di farlo.
Non voglio che finisca adesso, proprio ora che i “the penguin cafè orchestra” stanno suonando la mia decisione, prendendola al posto mio; la progressione degli archi e la melodia, un solo arpeggio suonato al pianoforte con tale consapevolezza, non possono che far da cornice, o meglio da colonna sonora a quest’istante: l’istante in qui mi sollevo dal letto, mi tolgo la maglietta e faccio scorrere le dita sulla mia pelle, immacolata, proprio come una settimana fa, prima che tante piccole rigonfie bestioline avessero deciso di abitarmi; l’istante in cui vado al balcone, ancora scosso dalla tempesta, e osservo i residui della battaglia, le piante e alcuni oggetti, come il mio stendipanni, che hanno preso il volo. E infatti lo osservo, è finito di sotto, in cortile, in mezzo ai rigagnoli e allo scroscio infinito di acqua che vi si abbatte. Ci sono anche tutti i miei vestiti, e questa maglietta asciutta che in pochi secondi andrà a fargli compagnia.
Un attimo dopo sono in strada, con le braccia spalancate, gli occhi chiusi e il volto verso il cielo a ricevere tutta la scarica di energia capace di abbattersi su questo deserto. In mezzo a questa strada impeccabilmente asfaltata (le promesse delle amministrazioni locali si mantengono qualche ora prima delle elezioni) so che non passerà mai nessuno.
Che cosa è questa città ad agosto? Che cosa sono le sue strade? Sono le mie arterie, e la pioggia il mio sangue, e io ne sono il padrone. Ora mi ripiego su me stesso, in ginocchio, in posizione di preghiera. Voglio che quest’acqua mi battezzi e sancisca la mia rinascita, voglio urlare e lo faccio, svegliando qualche anziano che però sarà troppo impegnato a fare il conto degli storici temporali che si sono abbattuti nel milanese durante gli ultimi decenni. Voglio prendere tutta la maledetta pioggia e diventare un cazzo di rigagnolo anch’io, gocciolare così tanto da non respirare, farmi spazzare dal vento e diventare un seme e finire vicino alla piazzola di cemento del parco nord, quella dove i pakistani la domenica giocano a cricket, e farli smettere, e poi crescere talmente tanto da fare ombra a tutta la città. Vorrei essere un seme di sequoia e stendere il mio respiro su tutta la popolazione, e poi venire abbattuto dall’azienda municipalizzata, la stessa che ha rifatto quest’asfalto privo di rigagnoli poco prima delle elezioni, la stessa che pensa al bene degli spazi verdi; e vorrei diventare un martire, tra le lacrime del gruppo degli ambientalisti, anch’esso abbattuti e decimati nella giunta comunale.
Quella di tramutarmi in una sequoia non sarebbe la prima follia che compio, e non sarei il primo folle in questo paese.
Carracchia ad esempio, detto così per la sua mole, per gli occhiali a fondo di bottiglia e per il suo caratteristico modo di terrorizzare gli adolescenti comparendo dal nulla nei loro luoghi di ritrovo preferiti, venne investito perché aveva deciso di farsi un bel giro in Graziella sulla Milano Bologna. Prognosi: un anno. Una volta guarito e riacquistato l’uso della parola, diventò un molestatore leggendario, tanto che una volta, una giornalista locale affascinata dai suoi modi gli dedicò tutta una pagina.
Il caso più eclatante però, fu quello di Fanfefki, un uomo pallido, smunto e brizzolato, sempre vestito con una tuta nera. Utilizzava questo suo nome come intercalare, o viceversa. Fanfefki era particolarmente galante con tutte le mie amiche; in generale lo era con tutte le amiche di tutti.
Fanfefki aveva l’enorme capacità di riuscire a creare dei conflitti tra bande di difensori di amiche, poiché ognuno era occupato a difendere le proprie e queste ultime, non volevano che egli ne lusingasse altre con la sua pronuncia Fefkina. Purtroppo si dice anche che abbia picchiato la madre. Pare che facesse particolarmente caldo, sempre una giornata di agosto, forse oggi stesso, forse ieri o la settimana scorsa, sempre qui, a quattro o cinque chilometri da Milano.
In questi mesi, in periferia, il caldo sortisce due particolari effetti sulla mente delle persone: il primo è l’istinto primordiale che spinge i pochi rimasti ad andare al centro commerciale; il secondo è la follia. Capita a tutti. Lui l’aveva presa a bastonate, perché la povera donna era convinta che a mezzogiorno si dovesse pranzare; lui, invece, voleva andare al centro commerciale, non aveva un mezzo, e voleva che la povera mamma gli comprasse la macchina. Proprio in quel momento, proprio quel giorno. Uccisa.
Che scandalo per la nostra piccola cittadina, pochi chilometri a sud-est di Milano. E mentre la troupe televisiva di uno scandaloso telegiornale nazionale, il TG6, attraversava di corsa la grande statale, una via Emilia completamente vuota, noi cittadini non ci guardavamo neppure in faccia. Lo conoscevamo tutti, ci conoscevamo tutti. E quindi pareva che ognuno di noi le avesse tirato la bastonata fatale.
Il camioncino della troupe ci aveva preso gusto: quella strada era troppo dritta, troppo infinita e abbagliata dal sole. Evocava l’Highway 61, e da un momento all’altro ci si aspettava di vedere l’ombra avvolta di nero di un Robert Johnson che vendeva l’anima al diavolo. Nel frattempo, Bob Dylan cantava a squarciagola, e tutti erano pronti a immortalare quella bellissima tragedia in questa assurda cittadina di provincia. Poco importava che di fianco alla carreggiata corresse un putrido canale scolmatore, la pecora nera di tutti i fiumi, la creatura non desiderata del Naviglio; e poco importava che qui, purtroppo, non avrebbero trovato nessun killer seriale bloccato da una camicia di forza ad aspettarli per il servizio. Nessun killer dallo sguardo vago, vacuo e vuoto di chi ha il terribile sole della follia ancora nel cervello.
Ancora un incrocio e tutti a cantare a squarciagola l’ultimo tratto d’intervista. Poi, all’improvviso, la rotonda: nel suo centro, in mezzo al minuscolo giardinetto, uno di quei monumenti al costruttore-decoratore. Il costruttore-decoratore è colui che grazie alle rendite della propria florida azienda si fa carico della decorazione, per l’appunto, delle rotonde cittadine. Si trattava, per quella rotonda sulla via Emilia, di un palo acuminato di colore blu fosforescente; chi lo sa, forse rappresentava la purezza, forse una gelida stalattite che non si scioglierà, grazie al fuoco passionale dei cittadini. Infine, un urto violento: una troupe, un bambino, tre ciclisti, un cane e un extracomunitario, tra l’altro l’unico turkmeno che si fosse mai preso la briga di metter piede nella provincia di Milano. La popolazione estiva del paese: decimata.
Fanfefki non si diede comunque pena di nulla. Cercava soltanto di raggiungere il centro commerciale “il vento in poppa” nell’unico modo possibile: a piedi. Pareva un profeta sulla via per Damasco. Si arrampicava sull’asfalto, cadeva, aveva il corpo completamente ustionato e di tanto in tanto trovava sollievo nel canaletto di scolo; inoltre, tanta, tanta saliva schiumosa gli cingeva gli angoli della bocca.
Finalmente, arrivato all’imponente costruzione (quella detta Scirocco, che appunto si trovava a Sud-Est) del centro commerciale, assaporò ancora una volta il miracolo. Quello spettacolare veliero, che nel suo immaginario era sempre pronto a salpare, e del quale lui non si sarebbe perso la partenza per nulla al mondo, per ringraziarlo, o anche solo per andare via da lì; la sua torre altissima, che sbuffava vapore, e il nulla intorno. Si chiedeva sempre Fanfefki, e lui ne aveva visti di centri commerciali nella vita, come facevano ogni volta a costruirci il nulla intorno; si, perché era chiaro come il centro facesse parte della natura, l’aveva di sicuro voluto Dio; ma il nulla, che tanto caratterizzava la periferia milanese quanto quelle di Parigi o Stoccolma, non riusciva a spiegarselo. Nelle giornate particolarmente serene, dalla torre, si potevano osservare le altre 3 costruzioni gemelle.
Arrivato al centro commerciale, Fanfefki realizzò di avere ucciso sua madre nel giorno di festa ufficiale dell’agglomerato di negozi “il vento in poppa”. La nascita del fondatore.
Il dottor Plinio Cloggio era un uomo straordinario. Tutti e quattro i centri commerciali di sua proprietà si erano fermati. Le città si erano fermate. Perché le città fuori dalla città, da Milano, sono centri commerciali. I centri commerciali sono il centro storico, le battaglie per l’articolo meno costoso hanno da tempo sostituito quelle per la conquista in arme del territorio. I giovani hanno bisogno di una sola cosa, del centro commerciale: lì si può guardare la televisione, sgraffignare qualcosa da mangiare, ascoltare musica, leggere e giocare a un videogioco; si può provare un vestito o sgraffignarlo; si può provocare una rissa, mangiare un gelato o trovare l’amore; si può imparare a guidare; si può fare pipì, si possono terminare i soldi, ma anche guadagnarli. È un cimitero, le persone tengono tutte lo sguardo basso e di norma hanno la faccia rovinata e sono vestite male; ma comunque tutti, nelle quattro città ospitanti le creature di Plinio Cloggio, ne possiedono una sua effigie, da adorare al mattino, prima di recarsi al centro commerciale.
Oggi è dunque giorno di festa, e come vuole la tradizione, Plinio discenderà dal fantastico ed eccitante centro direzionale della sua Shakesport Co., 73 piani tra l’università e il tribunale nella metropoli delle metropoli, Milano, per recarsi da un cliente della provincia superfortunato estratto a sorte tra centinaia di migliaia con famiglia tutti pronti scattanti agli ordini a succhiare sapere e conoscenza da quell’uomo straordinario.
Aveva fondato un impero dal nulla, partendo da un negozio che importava chincaglierie e regalava citazioni letterarie a ogni acquisto, proprio come se si fosse trattato di cioccolatini. Ora possedeva almeno 40 negozi in altrettante province più i quattro gioiellini: “i venti in poppa”.
Non aveva idea che mentre migliaia di famiglie speranzose preparavano pranzi faraonici, sacrificavano agnelli, figli e suocere in suo onore e danzavano al ritmo di tamburi pagani comprati d’occasione nei suoi negozi, uno dei più affezionati clienti del suo centro stava tentando di sfondarne a pietrate le vetrine, dopo aver ucciso la madre a bastonate e aver indirettamente provocato la morte di un’intera troupe di eccellenti giornalisti e di qualche cittadino, tra cui uno di origine turkmena.
La polizia locale interruppe la sua corsa sulla via Emilia, ancora deserta. Le ambulanze trasportavano via cadaveri e qualche ferito grave, la solita folla di curiosi. Plinio venne fatto scendere, il suo abito illuminò tutta la rotonda e il monumento si vergogno della sua inferiorità, perdendo all’istante l’erezione. Plinio camminava, in piedi, statuario, e presto una piccola folla gli si fece addietro, lo toccavano, gli lanciavano benedizioni, le campane della chiesa cominciarono a suonare a festa e il parroco uscì facendosi il segno della croce; si dirà in seguito che durante quella giornata guarirono anche sei paraplegici e tre malati di varicella, inspiegabilmente.
Ci si cominciava a chiedere chi fosse il fortunato, la famiglia predestinata ad accogliere il regale Plinio in qualche misera alcova. Lui sarebbe arrivato, avrebbe stretto la mano a tutti, detto qualche parola sulla dinamicità, sulla velocità e sulla voglia di fare, diretto le operazioni, incitato. Poi avrebbe mangiato in silenzio e alla fine avrebbe guardato tutti negli occhi e preso con sé il predestinato che sarebbe, da lì a un anno, dopo un duro addestramento (si dice tra le montagne del Turkmenistan), divenuto capoarea.
Sono passate solo poche ore, da quando, ancora immerso nella mia malattia, abbagliato dal sole accecante che entrava dalla porta finestra, mi meravigliavo, per un istante, di quelle incredibili urla di acclamazione prima, di stupore e di sdegno poi.
Mi ricordai per caso di questa festività interprovinciale che teneva a casa moltitudini di lavoratori e, per una volta, sperai che il maledetto avesse deciso di autoinvitarsi nella mia dimora. Non si può esattamente dire che fossi suo cliente, ma avevo lavorato per lui, e come ringraziamento per la sua umanità avevo preso in prestito dal punto vendita: delle sacche refrigeranti per il vino, un cavatappi multicolore di silicone, qualche mazzo di fiori di cartapesta e un tappeto. Pareva che non fossi abbastanza dinamico, ma dopo essermi licenziato presi in prestito anche due dei cerchioni della sua auto, perchè in negozio erano terminati.
Salivano le scale a moltitudini e li udivo oltrepassare il mio appartamento. Poi, tutti col fiato sospeso, mentre il dottor Cloggio posava il suo polpastrello su un campanello, su da qualche parte.
Il fiato sorpreso quando nessuno venne a rispondere; le urla di disapprovazione quando divenne oramai chiaro che: o la famiglia Caciulli si era barricata in casa, oppure aveva impunemente dimenticato il grande avvenimento, andando chissà dove.
Lo avevo appena sentito rientrare, quando scoppiò la tempesta, e allora non seppi più distinguere se la natura stava chiedendo aiuto perché fosse risparmiata, o se Caciulli stesse urlando dal dolore. Cloggio aveva sicuramente lasciato la sua leggendaria “bolla di non comparizione”, dove, chi ne entrava sfortunatamente in possesso, veniva invitato a non comparire mai più nelle adiacenze di un suo grande magazzino, nel raggio di almeno quaranta chilometri.
Il signor Caciulli non aveva famiglia, era vedovo e ora avrebbe dovuto trasferirsi in un’altra regione. Era un italo-svedese, semplicemente stanco della provincia dello Jämtland. Aveva fatto un errore di valutazione, e si era reso conto troppo tardi che le immense distese di neve invernali della sua terra, qui venivano sostituite da statali desertiche e roventi d’estate; che le persone, che allora tanto lo irritavano salutandolo a ogni angolo senza conoscerlo, qui tiravano dritto, a testa bassa, dirette al centro commerciale; che il suo cielo azzurro, che reputava così piatto e invariabile, era qui sostituito da un cielo bianco a strisce marroni; che generare figli a casa d’altri lo avrebbe portato ad essere rifiutato come padre.
La sua era una ricorrente storia di solitudine, di migrazione o di amore finito male. Una storia come tante, da queste parti, che termina con la follia, in alcuni casi; con la guarigione in altri o con la solitudine stessa, per la maggior parte.
Io sono ancora qui, in strada, continua a piovere, in maniera atroce questa volta, pare che la schiena mi si sia spezzata da quanta acqua abbia dovuto sopportare, mi manca il respiro e sento di essere disteso in una posizione anomala. La vista va e viene e ho già vomitato parecchie volte. Non è passata neanche un’automobile, neppure una pattuglia, devono proprio essere tutti in vacanza, quelli che non sono soli. C’è una novità, non riesco a muovere neanche più un dito, eppure sento di essere bloccato in una posizione innaturale. Non ricordo neppure da quanto tempo mi trovo qui. Solo mi ricordo di un urlo distinto tra il fragore della tempesta, poi il buio, poi una scarica di dolore che mi attraversa i nervi, dal cervello alla schiena spezzata e gli occhi che riescono a distinguere una forma umana che rotola lungo la strada, via da me. Infine un piccolo pensiero, triste e solitario: “Non capisco perché il signor Caciulli abbia deciso di farla finita proprio questa notte”.
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