20 gennaio 2005

Gerardo Pedicini - Quel lontano mattino del 18 giugno 1918

Premio letterario 'Provincia cronica' prima edizione
Gerardo Pedicini - Quel lontano mattino del 18 giugno 1918

Dopo un continuo metti e togli, finì per scegliere una vesticciuola di cotone a righini bianchi e blu. Le linee orizzontali del carré la facevano apparire più in carne di quanto in verità non fosse. Per accentuare le rotondità dei fianchi, si strinse a più non posso la cinta in vita. Dopo essersi in lungo e in largo ammirata nello specchio, tutta contenta si disse: «Ora sì. Può andare.»
Appena la vide spuntare sulle scale, Emilio le disse:
«Dove credi di andare vestita in pompa magna?»
«A Benevento! Perché non si vede?» gli fece subito eco lei; e, per evitarsi nuove punzecchiature, salì sulla carrozzella, sistemandosi all’ombra del mantice. Il viso le ardeva come fuoco.
Alla partenza mancava solo Alessandro. Era ancora su, in cucina, con la mamma. Finalmente apparve sulle scale ma non si decideva a scendere. Da giù Emilio gli disse: «Che aspetti? È tardi.» Quando fu sulla soglia del portone, Alessandro si fermò a fissare ogni angolo del cortile. Era sul punto di piangere. Emilio gli andò vicino, e: «Su, su, dai. Eugenio aspetta da un’ora.» Alessandro alzò lo sguardo verso la finestra della cucina. Era chiusa. Mamma Maria Giovanna non se l’era sentita di affacciarsi.
La carrozzella incominciò lentamente a muoversi. Ad ogni intoppo delle ruote, il pianale traballava. Andò avanti così finché non si fu sulla provinciale. Qui, le ruote presero a scivolare leggere sulla carreggiata alzando rasenti nuvolette di polvere che subito scomparivano nell’aria di vetro di quel lontano mattino del 18 giugno 1918.
Si filava tra una distesa di campi di grano, macchiati qui e là da terrazze di viti e da fitti querceti che salivano verso la montagna. Nella piana, dopo la pioggia del giorno prima, il verde splendente dei pioppi si stringeva intorno alla linea serpeggiante del fiume e sembrava sovrastare la marea di granturco, interrotta dai tetti di sperdute masserie.
Fino al bivio di Torrecuso si andò avanti col vento che scendeva dalla montagna. Subito dopo la biforcazione, la strada sprofondò tra due filari di platani. Attraverso il fitto fogliame il sole proiettava chiazze di luci e ombre e, ad ogni tratto, il manto dei cavalli ne usciva variamente pezzato. Se non fosse stato per qualche uggiolio lontano e per le lucertole che se ne stavano asserragliate tra gli incavi delle pietre placide e sonnacchiose a godersi il tepore dell’aria mattutina, pareva proprio muoversi in una bolla d’aria.
Benevento era ancora lontana. Per quanto Assuntina si industriasse a cercarla con gli occhi, non riusciva proprio a individuarla nella fitta trama di alberi e di colli che si apriva davanti a lei. Sembrava che si fosse volatilizzata.
Si continuava a correre nel silenzio della campagna. Usciti dallo slargo dell’abbeveratoio, le ruote ripresero a martellare il fondo stradale dissestato e il dondolante pianale iniziò nuovamente ad alzare lamentosi scricchiolii, finché non si arrivò al ponte. La pioggia dei giorni passati aveva di gran lunga ingrossato il fiume. L’acqua aveva superato gli argini.
La giovane si sporse per meglio guardare le giravolte della corrente prima che andassero a infrangersi sui piloni. Poco mancò che non precipitasse giù. Non sarebbe stato un bel salto! Avvinghiata al ferro del bracciolo, strinse istintivamente le palpebre. Le riaprì soltanto quando si attenuò lo sferruzzare degli zoccoli sul pietrisco della strada. Era dall’altra parte del ponte, sull’erta della collina che digradava verso Benevento. Tirò un sospiro di sollievo. Era fatta. L’aveva scampata. Sprofondare in quel vortice oscuro, che gorgogliava di livida spuma, per poi andare a sfracellarsi sulla muraglia dei piloni, non sarebbe stata una bella esperienza. Ancora le venivano i brividi al solo pensarci.

Arrivati al casamento della Strega, Eugenio fermò la carrozzella dietro un vicolo all’ombra. Assuntina e i fratelli attraversarono la strada ed entrarono nella stazione. C’era da lustrarsi gli occhi. Un via vai continuo. Pareva fatto apposta per far venire il capogiro. Ci si poteva anche perdere in mezzo a tutto quel trambusto. E, per non perdersi, Assuntina si tenne accosto ad Emilio, facendosene scudo. Poco distante, Alessandro si era fermato a parlare con un giovane soldato. Lei ascoltava, e taceva. Non stava in sé dal desiderio di muoversi. Voleva uscire dalla stazione, andare a passeggiare lungo i vialoni alberati. Invece doveva stare lì a sorbirsi tutto quello che il soldato diceva, senza mai toglierle gli occhi di dosso. Almeno la smettesse di fissarla. Emilio invece parlava con il comandante dei carabinieri di Vitulano. Quando veniva in paese, non mancava mai di venire, per servizio, a casa dal padre sindaco, quando non lo trovava in municipio. «Alessandro, vieni: c’è il maresciallo Mastrocinque,» disse Emilio al fratello. «Il maresciallo è di scorta al convoglio fino a Roma.» «Ci faremo compagnia,» disse il maresciallo ad Alessandro che, di botto, era diventato muto. «Viaggerai con me nella carrozza riservata ai carabinieri.» Li informò che la partenza era fissata per le quattro. Mancavano ancora all’appello le compagnie dei presidi di Montesarchio, S. Giorgio del Sannio e Frasso Telesino. Sarebbero arrivate alle tre, dopo il rancio. «Avete tempo per una passeggiata in città,» aggiunse e, rivolto alla ragazza: «Alla piccola Assuntina farà senz’altro piacere.» La giovane non stava in sé dalla gioia. Del resto, altro non c’era da fare. Poteva essere anche un utile diversivo da raccontare a mamma Maria Giovanna: le avrebbe alleviato il dispiacere della partenza di Alessandro.
Usciti dalla stazione, si misero a marciare lungo il viale. Alla fine del lungo e alberato corridoio di alberi, Assuntina vide spuntare dietro le ultime case un rosone di una chiesa. Era la cattedrale. A guardarla, c’era da perdere la testa. La facciata era grandissima e la sola torre campanaria poteva stare al posto della intera area della chiesa di S. Rocco. Ma ancor più della cattedrale, a sbalordirla fu la piazza a lato sinistro della chiesa. Intorno alla fontana, sistemate in bella evidenza c’erano centinaia di banchi del mercato. Pieni, zeppi di ogni ben di dio. Occupavano l’intera area e si prolungavano lungo la via che, in leggero pendio, scendeva verso la chiesa della Madonna delle Grazie. Sulle bancarelle c’era di tutto. Piatti, pentole di rame, cesti di vimini, stoffe, gomitoli di seta, lana grezza da cardare e, finanche, interi corredi da 100 per le spose. Si fermò alla bancarella dove erano esposte delle tovaglie di Fiandra. Alzando gli occhi, si accorse che dei giovani se la mangiavano con gli occhi. Aveva fatto colpo! Come avrebbe voluto essere insieme alle compagne che, a quell’ora, erano dalla maestra Apollonia a imparare il ricamo, e raccontare loro per filo e per segno tutto quello che le era capitato fin dal mattino! Se fosse comparsa loro improvvisamente davanti, forse nemmeno le compagne l’avrebbero riconosciuta. E infatti non la riconobbero nella foto che Emilio andò a ritirare dal fotografo la settimana dopo.
A tradire la sua giovane età, nonostante il suo stringi stringi in vita e arricciature sul petto, erano i capelli. Le cadevano a cascata sulle spalle come a una bambola e, come una bambola, portava le scarpe senza tacco. Brillavano di lacca che era un piacere.
Chi la vide passeggiare quel mattino in città, la prese per una dodicenne. Una dodicenne che si era gonfiato il pettazzolo a più non posso. «Dio mio, che tempi! Puzza ancora di latte! Buona al più per il punto a giorno,» biascicarono a denti stretti alcune vecchiette passandole davanti.
A sentirle, ad Assuntina i capelli le si rizzarono in testa. E, senza nemmeno chiedersi perché, incrociò le braccia per nascondere gli sbuffi del vestito sul petto. Si sentiva il viso bruciare dalla vergogna. Allora gli sguardi degli aponi impazziti sul corso non erano stati attirati dal suo odore di miele ma per come si era conciata? Fino ad allora se li era goduti di sottecchi ogni volta che si era fermata a specchiarsi nelle vetrine. Lo faceva a bella posta a fermarsi. Dietro di lei sentiva gli sguardi appiccicati addosso come carta moschicida. E aveva viva la sensazione che le sue due melette le si fossero gonfiate per miracolo sotto il carré, diventate improvvisamente mature. Per quelle bizzoche invece non era altro che una che puzzava ancora di latte! Le venne un moto di stizza che non riuscì a trattenere. E per tutta risposta spinse i fratelli ad entrare nel negozio del fotografo Intorcia che era sul corso.

In verità dal fotografo prima o poi ci sarebbero dovuti andare. Mamma Maria Giovanna aveva espresso il desiderio di avere il ritratto del figlio Alessandro. In attesa del suo ritorno, l’avrebbe infilato tra la cornice e lo specchio del comò, come aveva fatto con quello di Francesco.
Una volta dal fotografo, non ci volle molto ad Emilio per capire. Assuntina aveva messo un muso lungo come una vita. Sembrava che stesse lì per lì per scoppiare a piangere. E prima ancora che il vecchietto li licenziasse, Emilio gli disse che bisognava fare il ritratto anche alla sorella. La proposta fu accolta con un lampo di gioia dal fotografo che, subito aggiunse che, per quel fiore di gioventù, il fondale adoperato per Alessandro non andava bene: ce ne voleva un altro, buono solo per lei. Restò alcuni minuti col mento sospeso in aria. Che ci fosse da pensare poi non si capiva. In quella nuda stanzetta di posa non c’era proprio da scialare. Ma a guardare bene, in un angolo, arrotolato, c’era un rotolo. Il fotografo lo trascinò a centro della stanza e incominciò a srotolarlo lentamente. A poco a poco, apparve una terrazza affacciata sul mare. Sotto la luce che pioveva dal lucernario, la balaustra di ferro pareva vera, e vera la lumeggiante distesa d’acqua. Il cielo si confondeva con la coloritura violacea del mare. Attraverso i ferri, le increspature delle onde erano di un verde scaglioso che si prolungava fin sotto la linea della rena. «Questo, andrà senz’altro bene,» disse e, aiutato da Emilio, lo appese al muro. E, sotto la direzione del vecchio Intorcia, Assuntina si mise in posa. Ancora con negli occhi il lampo di magnesio Assuntina ritornò con i fratelli in pieno sole, in quel caldo senza vento che li accompagnò per tutto il tempo che girarono in lungo e in largo per Benevento.
Arrivarono alla rocca, e ridiscesero il corso per ben due volte. Il tempo non passava mai. Decisero di andare a sedersi sotto i portici del bar Pastore. La piazza era deserta. Il sole arrostiva il selciato, e dai lastroni di pietra il calore saliva fino a loro. Assuntina avrebbe desiderato consumare, in un baleno, il gelato e scendere poi verso il fiume. Ma il cameriere non si decideva mai a venire. Finalmente si presentò. Aveva un grembiule schizzato di punture di caffè. Presa l’ordinazione, scomparve e si presentò subito dopo con la guantiera. C’erano solo le tazzine di caffè per Emilio ed Alessandro. Per il gelato, Assuntina dovette attendere di veder ricomparire il tanto sospirato grembiule gallonato. Fu un gelato da favola. La ragazza se lo mise a gustare lentamente. Emilio le disse di darsi da fare, che l’ora della partenza era vicina.

Trovarono la stazione pavesata a festa. Bandiere dappertutto, e una marea di soldati; grappoli di mogli, madri, figli che si tenevano stretti stretti per non perdersi. Dalle entrate laterali continuavano a spuntare sempre nuovi drappelli. La banchina era diventata una piazza d’armi. Sul primo binario la locomotiva sbuffava come un mantice. Nel cielo si alzavano colonne di fumo grigio e denso. A tratti, lunghi fischi foravano l’aria e si rincorrevano da un punto all’altro del marciapiedi. Spinto dal vento il fumo si distendeva nel cielo come una coperta. Per paura di smarrirsi in tutto quel trambusto, Assuntina si aggrappò alla mantellina di Alessandro, e si incollò strettamente a lui affondando il naso nella stoffa ruvida: emanava un forte odore di liscivia, appena appena attenuato dai fiori di saponetta che, una volta secchi e racchiusi in sacchettini di stoffa, mamma Maria Giovanna usava mettere nell’armadio per profumare le lenzuola.
Ci fu uno strappo. Alessandro non era più con lei. Era dietro il finestrino abbassato e sventolava il fazzolettino di batista con le iniziali che lei vi aveva ricamato. Le venne da piangere. Si guardò intorno smarrita. Era come annegata negli sbuffi di fumo che parevano provenire da profondità remote. Per un attimo ebbe paura di essere sola, ma, da dietro, le arrivò la mano di Emilio. La strinse con forza. Emilio fece cenno ad Alessandro di venire a salutare un’ultima volta la sorella. Alessandro se la strinse forte forte al petto, baciandola sulla fronte. Quel bacio e quell’abbraccio le restarono impressi nella mente per tutto il tempo che ci volle ad Alessandro di ritornare dal fronte.
D’un colpo, l’aria si fece irrespirabile. La stazione era diventata una posta infernale. I sibili della locomotiva si erano fatti sempre più stridenti e penetranti. Si ripetevano ad intervalli regolari, oscuri e incomprensibili. A uno più lungo e lamentoso degli altri, seguì un irreale silenzio che fu rotto dalle note della marcia reale. La banda militare continuò a suonare finché il bilanciere iniziò lentamente a ruotare e il treno, sotto la spinta degli stantuffi, incominciò a muoversi. Si portò via nel vento la mano di Alessandro che sventolava il fazzoletto diventato uno straccetto grigio e spento tra le dita. Al rientro a casa, il compito di ragguagliare la madre toccò ad Emilio. Quanto a lei era così stanca che, come si tolse le scarpe, tirò un sospiro di sollievo e si abbandonò sulla sedia di paglia della cucina che era vicino al camino. Mamma Maria Giovanna ascoltò senza mai fare domande. Alla fine, si alzò e prese ad andare avanti e indietro nelle stanze vuote come una sonnambula. Non faceva altro da quando, dopo la disfatta di Caporetto, era arrivata la notizia che Francesco era stato dichiarato disperso. Si sedette a fianco del letto del figlio. Vi restò una notte intera. Il mattino dopo uscì dalla stanza con i capelli che si erano tinti di bianco.

1 commento:

  1. Manuela Batul Giangrande11 maggio 2010 alle ore 16:45

    Quando un racconto e' poesia...poesia sublime. Il racconto suscita intense emozioni, sentimenti, visioni, momenti...e forti sensazioni. Un tuffarsi nel tempo per rivivere...un rivivere autentico.

    RispondiElimina