A
cinque anni di distanza da Magic Bruce Springsteen torna in grande spolvero
con Wrecking Ball. Superate le sessanta candeline (è del 1949), il boss
propone un album ricco di spunti musicali attorno al quale si sviluppano temi
ricorrenti dell’America dei giorni nostri: i sogni, i sentimentalismi, le
disillusioni di un paese che sta vivendo la crisi, ma è sempre orgoglioso di
capitanare il mondo. Dalle piccole cose quotidiane si trae spunto per creare
piccole storie di cui solo Springsteen (così come un altro mostro sacro del
Rock come Bob Dylan) è dipingere di costruire con classe artistica sublime un
quadro della drammatica situazione attuale.
Non
c’è più la E-Street Band ad accompagnarlo (causa la scomparsa dei compianti
Clemons e Federici), ma gli strumentisti a fianco del cantautore rock del New
Jersey non la fanno rimpiangere più di tanto. Wrecking Ball, album in studio
numero 17 di Springsteen, parte con l’inno patriottistico We Take Care Of Your Own, un primo singolo che ricalca molto lo
stile di “The Rising” (“Da Chicago a
New Orleans
/ dai muscoli alle ossa / dalle baracche al Superdome / nessun aiuto,
la cavalleria è rimasta a casa / nessuno ha udito suonare le trombe / Ci
prendiamo cura di noi”) con il pathos di Born in the Usa. Poi è il turno di Easy Money, ballata country con cori
gospel si motteggia ironicamente a Wall Street.
Shackled and Drawn
è un altro country in cui si sente tutta la fatica e la frustrazione per una
vita destinata alla lotta per far valere i propri diritti (“La libertà, figlio
mio, è una camicia sporca / Il sole sul mio viso e la mia pala nel fango”),
così come Jack of All The Trades è un
motivo sulla propensione al sacrificio. Un sacrificio che si trasforma in
seguito in debolezza (This Depression),
mostrando così un lato molto umano di Springsteen. Ma questo sentimento
frustrante è anche capace di tramutarsi in rabbia, come dimostra la title track, piccolo capolavoro in cui
emerge un linguaggio molto sincero e diretto (“Qui, dove il sangue viene versato,
dove si riempie l'arena / e i Giants giocano / Quindi leva gli occhiali e fammi
sentire la tua voce chiamare / Perché stanotte tutti i morti sono qui / quindi
scaglia la tua palla demolitrice”). Non mancano anche nuove trovate nel
repertorio del boss come il folk celtico di Death
To My Hometown e l’R’n’b (!) di Rocky
Ground, a testimoniare che al passare degli anni l’ex ragazzo “nato per
correre” ha raggiunto una completezza per certi aspetti sorprendente.
In chiusura, l’inno
rock in puro Springsteen style Land Of
Hope And Dreams, dove chitarre e piano dominano, c’è ancora il sax di
Clemons e rispetto alla versione originale del 1999 si sente anche qualche coro
gospel. Il tutto ad immortalare un treno di “santi e peccatori, perdenti e
vincitori, prostitute e giocatori d’azzardo, anime perse” verso una “terra di
speranza e di sogni”. “Wrecking Ball” termina con la marcia mariachi di We Are Alive che sembra dedicata apposta
ai lavoratori precari e agli immigrati che urlano rabbia per conquistare la
dignità. Per chi ha l’edizione speciale segnaliamo anche la ballata folk American Land in cui viene narrata
l’America povera e umile che lavora duro per realizzare con orgoglio il proprio
sogno di libertà, quel valore che Springsteen da buon americano ha sempre
considerato indispensabile.
Nel
complesso “Wrecking Ball” è un piccolo capolavoro di suoni e di sostanza. Meno
trascinante di “The Rising”, meno sorprendente dei suoi capolavori “Born To
Run”, “Darkness” e “The River” (ma sono anche passati oltre trent’anni), è un
album che risente parecchio dell’insicurezza odierna e dei valori a cui è
sempre rimasto attaccato il Boss, nato da una famiglia umile nel Ney Jersey:
l’abnegazione, la lotta per i propri diritti e l’orgoglio americano. Una vera
“sfera demolitrice” che va a colpire le nostre menti e che dà un segnale vitale
a chi oggi vive il Rock (e non solo quello) in maniera troppo dimessa. Evviva
il Boss, 62 anni e avere ancora più di qualcosa da dire! Marco Pagliari
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