4 marzo 2013

Appino e il suo testamento che accontenta tutti

Dopo averlo annunciato sulla sua pagina Facebook ad ottobre, Andrea Appino esordisce da solista con Il Testamento. Un disco dal titolo piuttosto cupo, ma con sonorità assai vibranti. Accompagnato da due membri del Teatro degli Orrori, ossia Giulio Favero al basso (qui in ruolo anche di produttore) e da Francesco Valente alla batteria, il folkman-rocker toscano concepisce un disco solido, istrionico e soprattutto molto coinvolgente. Tra le tematiche che lo contraddistinguono (rabbia e agonia raccontante con ironia e sarcasmo) e un sound d’impatto, Appino firma 14 pezzi che non possono lasciare indifferenti.
A partire dalla title track, costruita su un tappeto di piano che si sviluppa in un crescendo tra cantautorale nostrano e brit pop d’assalto (Muse e Kasabian per intenderci). Poi ecco il turno di Che il lupo cattivo vegli su di te, filastrocca fiabesca ma allo stesso tempo luciferina e tarantiniana che posa su una cavalcata rock epica che ricorda i Rainbow di Ritchie Blackmore. Tra fasi umorali e lunatiche (Lo specchio nell’anima), riflessioni sul mal di vivere (Passaporto, Godi (adesso che puoi), nel Testamento di Appino più che sentire l’influenza degli Zen Circus si assiste ad una miscela di sound distorti, acustici ed elettronici. Si nota la produzione di Favero, specialmente nelle portentose e violente Fuoco! e Schizofrenia (che dopo essersi aperta con uno strumentale acustico da camera si chiude con la Marsigliese urlata al vocoder: pazzia totale!).
Ma il frontman del Circo Zen è un abile istrione e per via della sua indole cantautorale impreziosisce il disco di un paio di episodi davvero notevoli, come La festa della liberazione, ritratto della “grulla” Toscana di provincia negli anni 2000 che potrebbe essere stato scritto da Bob Dylan cinquant’anni fa. Lo stile inconfondibile del testo (“la festa della liberazione / da questa voglia di serenità / e da quelli ubriachi di belle parole / da quelli sbronzi d’autorità come mio nonno, minatore di verbi / e congiuntivi di nessuna utilità”) così sincero e così rustico, lascia esterrefatti e porta all’applauso collettivo. E poi c’è I giorni della merla, un mini-affresco della famiglia medio-precaria assorta nei problemi (“mio padre lavorava otto giorni a settimana / nessuno gli ha insegnato che una moglie anche si ama / cosí l’ha violentata per trent’anni almeno / in cucina disgustata lei mi allattava al seno”) che ricorda De Andrè, ma più cinico nei toni.
Il sarcasmo provocatorio si ritrova in Solo gli stronzi muoiono e in Godi (adesso che puoi): anche nel suo esordio Appino non rinuncia a farsi una risata in barba ad una realtà ipocrita e qualunquista, scrivendo sempre parole schiette e di immediata recezione.
L’album non delude nemmeno nella conclusiva 1983, manifesto orwelliano di una attualità totalmente insicura (“i figli ora sazi di ogni tua paura / ti ringrazieranno per la tua statura / lasciano la mano che tendevi loro / e se ne vanno incerti nel paese nuovo / nelle luci accese del paese nuovo / nei rumori bianchi del paese nuovo / nel silenzio assurdo del paese nuovo / negli schermi neri del paese nuovo / nelle facce stanche del paese nuovo / nell’indifferenza del paese nuovo / nelle case vuote del paese nuovo / nella festa triste del paese nuovo”).
Al primo affondo il frontman dei Zen Circus fa centro, lasciando tutti a bocca aperta. Il disco piacerà sicuramente ai fan della band pisana, ma soprattutto sorprenderà gli scettici, quelli che pensano che un leader senza la sua band non possa rendere a dovere. Non è il caso di Appino il quale ci consegna un “testamento” pieno più che mai di vitalità. Marco Pagliari

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