9 maggio 2016

A moon shaped pool, per i Radiohead proviamo un'anti-recensione

In rete si sta parlando tantissimo del nuovo album dei Radiohead, A moon shaped pool, uscito in anteprima digitale e a breve disponibile anche fisicamente tramite XL recordings (anche in vinile, come il resto del catalogo, che verrà ristampato). I Radiohead sono stati fedeli compagni di adolescenza per molti e quindi molti si sentono in dovere di parlarne. Scrivere di loro, ultimamente, conferisce una sorta di bonus: quando mai capita che la rock band che ascoltavi in cameretta possa darti, vent'anni dopo, un gancio per citare qualche nome di compositore ungherese o polacco di musica contemporanea e quindi millantare approfondite conoscenze musicali?

D'altronde, i Radiohead hanno ormai da tempo varcato il confine tra l'ascolto generalista, in stile Coldplay e U2, e i discorsi da agguerrito forum musicale. Quei forum in cui chi schifa New gold dream dei Simple minds viene bandito. Quegli stessi forum che eleggono album dell'anno i dischi del fuoriuscito Jamie xx o dei redivivi New order. Quei forum in cui ogni battaglia è vinta da chi per primo cita Television, Pere Ubu o Suicide come iniziatori di qualsiasi cosa accaduta tra il ventesimo e il ventunesimo secolo. Insomma i Radiohead sono diventati materia di trattato per gente che non ha l'abitudine di ascoltare ma rivende e rivendica ciò che a sua volta ha letto in giro da chi si proclama esperto. La nostra, contrariamente ad altro materiale che troverete in rete, sarà quindi un'"anti-recensione". La recensione di chi l'album l'ha ascoltato per davvero e ha cercato anche di approfondire qualche retroscena. Innanzitutto partiamo da una cosa che non in molti hanno osservato: la tracklist è in rigoroso ordine alfabetico. Cioè le canzoni sono in ordine dalla A (in realtà la B di Burn the witch) alla Z (la T di True love waits). Fa eccezione, apparentemente, solo The numbers, il cui articolo determinativo iniziale ai fini di un ipotetico archivio non si conterebbe. Ecco quindi cos'è questo album: un archivio di brani, dei quali (apparentemente) non conta l'ordine. Quindi non ascoltate chi vi dirà che in questo disco è fondamentale la fase di scrittura e che i brani sono concepiti per essere canzoni vere e proprie. Che prevalgono le canzoni e non l'ambientazione. Anche perché ben sette canzoni su undici non sono nuove. True love waits era addirittura apparsa nell'album I might be wrong: live recordings del 2001. Di Burn the witch si conosceva l'esistenza di una versione demo. Altre sono state suonate dal vivo dai Radiohead o da Thom Yorke solista o con gli Atoms for peace. Quindi, i Radiohead avrebbero potuto indifferentemente giocare con questo o con altro materiale, il risultato sarebbe stato lo stesso. Ormai possono fare ciò che vogliono. Possono far pizzicare ad un'orchestra inquietanti archi in una canzone, Burn the witch, che altrimenti sarebbe stata molto più pop. Possono piazzare in Identikit una sorta di assolo di chitarra (aspiranti musicisti: non fatelo nei vostri dischi emergenti, di questi tempi!). Possono non far succedere niente per la prima metà di Ful stop per poi esplodere in un crescendo pazzesco, con l'intensa voce di Thom Yorke che la fa da padrone, pur in assenza di linee melodiche riconoscibili (anche se c'è chi vi dirà che l'album è alquanto melodico). Mai forzato, sempre contenuto, è come se il cantante avesse trovato una propria pace interiore che non lo scuote mai. I vari archi (The number) o i vari cori da chiesa (Present tense, Decks dark) sono una sorta di fantasmi o mostri inquietanti che inquinano i puliti e luminosi passaggi di piano o di chitarra, ma Thom Yorke li spazza via con una pacatezza che mai avevamo riscontrato nei precedenti dischi. E' un disco che ci abitua alla formula del mantra, se è vero che la ripetizione della parola ha il potere di creare la materia. Ci sono momenti che pescano dalla musica new age (Glass eyes), dai mantra hindu (Identikit), da tutta quella musica che ci fa guardare dentro e creando consapevolezza ci connette con ciò che c'è fuori e contemporaneamente ci protegge. Il finale, con la nuova versione di True love waits, è perfetto perché minimale. La voce fa solo ciò che serve. Non si lamenta, non si autoelogia. Diffidate da chi vuole farvi credere il contrario. E' un disco solare. E'un disco che ci lascia intravedere tutto il brutto che c'è là fuori (il video di Burn the witch dice molto in tal senso) ma senza perdercisi dentro. La band che ha costruito su ansie e paranoie la propria carriera ora usa le paure come stimolo creativo. P.S.: nessun Ligeti e nessun Penderecki sono stati molestati per scrivere questa recensione. E' pur sempre un disco di musica pop. Al massimo la costruzione dei brani può essere quella dei Massive attack di 100th window e i momenti psichedelici possono ricordare i Portishead. Se poi siamo in grado di citare i compositori contemporanei ma non siamo più in grado di ascoltare un disco di musica pop, forse bisogna far pace con noi stessi come ha fatto Thom Yorke da quando si è fatto crescere i capelli. Marco Maresca


Tracklist:
1. Burn the witch
2. Daydreaming
3. Decks dark
4. Desert island disk
5. Ful stop
6. Glass eyes
7. Identikit
8. The numbers
9. Present tense
10. Tinker tailor soldier sailor rich man poor man beggar man thief
11. True love waits

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