Come mai avete chiamato il
vostro ultimo album Non resta che perdersi?
Tantissime
canzoni che ho scritto per l'album avevano come tema il concetto di
perdersi: riguardando i testi una volta scelti i pezzi che lo
avrebbero composto ho visto che toccavo varie volte l'argomento sotto
diversi punti di vista, dallo smarrimento all'abbandonarsi al piacere
o anche al perdersi di vista, allontanarsi...avendo una canzone
proprio quel titolo l'ho vista quasi come un consiglio per affrontare
questo periodo storico. Mi piace pensare che qualcuno possa dire “non
resta che perdersi”, inteso come quando vai in una città nuova e
decidi di perderti in essa per scoprirla a fondo. Anche la copertina
vuole rimarcare il concetto, con le due anziane signore in cammino su
questa spiaggia senza tempo e senza luogo.
Com'è stato scrivere per la
prima volta un album senza Fabrizio Vercellino?
Gran parte
dell'album è stato scritto in tre, in una formazione quindi ridotta
all'osso: è stato anche bello e formativo, perché ci ha aiutato a
capire meglio le caratteristiche sia mie che di Vito e Mamo, ed
abbiamo così creato un suono compatto e monolitico. A metà
registrazione è però entrato nella formazione anche Giuseppe
Magnelli, il nostro nuovo chitarrista nonché un amico ed un
musicista che abbiamo sempre stimato, ed il suo ingresso ha cambiato
molto il gruppo. C'è stata quindi una prima fase di azzeramento e
composizione in tre ed una seconda in cui siamo andati a riarrangiare
ed evolvere il suono. La mancanza di Vercellino la si può sentire in
“Non resta che perdersi”, ma quello che sono gli Io? Drama con
Magnelli li si potrà sentire appieno col prossimo album: Giuseppe è
uno che lascia il suo marchio, arricchisce molto il suono e si sente
quando c'è, l'album è però stato iniziato senza di lui e quindi
possiamo definirlo il passaggio di mezzo di una metamorfosi di cui
sono anche io curioso di vedere il risultato.
In Chiedilo alla cenere
scrivi “M'informo per stupirmi,
m'informo per comprendermi”, ma
in A piedi scalzi
affermi che “La verità è un'altra stupida bugia da cui
difendersi”: come
mai?
Le due canzoni trattano temi diversi. In Chiedilo alla cenere
c'è un dialogo con sé stessi al di là del tempo, ci si interroga
chiedendo a quello che resta una volta che tutto è bruciato. Il
pezzo inizia fra l'altro con una sorta di marcia funebre intonata da
quello che sembrano tromboni, mentre in realtà vengono da una
ripresa fatta col nostro produttore Iacopo Pinna camminando per Porto
Cervo a ferragosto: abbiamo sentito ad un certo punto tutti gli yatch
che suonavano il clacson in onore della Madonna al tramonto, e vedere
questo simbolo dello sfarzo di una società di opulenza intonare
questa marcia funebre ci ha fatto subito venire voglia di
registrarlo, ed è così finita come preambolo al pezzo. La frase che
citi sta ad indicare l'informarmi per chi capire chi sono, infatti ad
un certo punto dice “raccontami di te, di quando non ero nato,
raccontami di te, dimmi dove sei stato”, e nel proseguo vengo
travolto da tutti i fantasmi del passato, del presente e del futuro
che uno può avere che si conciliano attorno a me arrivando alla
catarsi: da quell'informarsi iniziale si arriva ad una presa di
coscienza di quiete interiore.
A piedi scalzi invece è una canzone che cerca di mettere in
luce alcuni bigottismi e tabù riguardo il piacere e l'edonismo: è
la verità istituzionale quella da cui difendersi, come se non ne
avessimo già abbastanza di bugie da scansare nella vita. Il concetto
è quello, infatti dopo nel testo recita “sua santità un'altra
stupida bugia potrebbe offendermi”, ne ho piene le palle di farmi
vendere da qualcun altro la sua verità quando sappiamo benissimo, ed
in maniera evidente, che è una grande cazzata. E' una canzone
critica, che si risolve nel ritornello in cui affermo di respirare
ancora nonostante tutto, sono vivo e non è un caso che il brano
successivo reciti “sono vivo quando mi va se mi va, sono vivo
perché mi va”.
Molti dei
vostri video mi sono rimasti impressi per l'originalità, quello di
Nel naufragio ad esempio, ma ero curioso di sapere qualcosa di
più riguardo a quello di Vergani Marelli 1. Com'è nata
l'idea di di girarlo con uno stile che ricorda e cita videogiochi
come Doom?
L'idea è partita da Seenfilm, ed è stato girato da Stefano
Bertelli, che ha lavorato fra gli altri con Marta Sui Tubi e
Caparezza. Sentendo la canzone si è fatto prendere da questa idea
del condominio e ne ha costruito una sorta di imitazione videoludica,
costruita coi cartoni e stilisticamente affine a Doom, da cui la
pistola: nel ritornello inoltre dico “che indifferenza fa una vita
in più”, e si lega perfettamente al concetto di vita da guadagnare
o perdere alla fine di un livello in un videogioco. Così è nata
l'idea, esasperando anche il concetto dell'essere, all'interno di un
condominio, quasi anonimi, ognuno con la sua personalità ma con un
ruolo ben definito, come in un videogioco appunto: Doom ci è
sembrato così il modo giusto per veicolare il concetto che voleva
esprimere la canzone, in soggettiva e senza essere troppo prolissi.
Proprio
in questa canzone affermi che “Fare il musicista non è che sia sta
grande idea”. Perché proseguire allora?
La canzone è molto autobiografica, tant'è che Vergani Marelli 1 è
la via dove ho vissuto a Milano per un certo periodo. Come tanti
ragazzi usciti di casa dovevo mantenermi, e facevo mille lavori che
non riguardavano il mio sogno, che rimaneva sempre quello della
musica: quando ho scritto quella frase l'ho fatto senza pensare di
lasciare ma soltanto per dire quello che viene in mente a tutti al
riguardo, perché poi ti bastano un accordo e la tua voce da solo
nella stanza, fare un concerto o creare un arrangiamento al computer
per ripagarti di tutto. Poi può diventare veramente un lavoro, per
me negli anni è stato così, ma quando ho scritto quei versi non ero
ancora così convinto di potercela fare a vivere solo di quello: oggi
lo faccio, e per quanto un musicista indipendente ovviamente non è
un petroliere e non si vedono i miliardi, che neanche mi interessano,
posso dire di stare facendo quello che voglio...ai tempi non era
così, e scrivendo di me stesso mi sono accorto che alla fine eravamo
tutti sulla stessa barca. L'ho scritta inoltre nell'anno
dell'esplosione della crisi e non si sentiva parlare d'altro che
della mancanza di lavoro, ed uno dei motivi che mi hanno spinto a
percorrere questa strada è stato proprio il realizzare che, se tutti
vengono licenziati, era quasi un obbligo cercare di fare della mia
passione un lavoro vero e proprio e non corrodermi il fegato come
facevano altri.
Oltre a
fare il musicista per un certo periodo sei stato anche all'interno
della Gestione di Palazzo Granaio a Settimo Milanese. Cosa ti è
rimasto di quella esperienza?
Mi è rimasto tantissimo. Palazzo Granaio è stato, e forse sarà
ancora anche se sotto altre vesti, una realtà eccezionale, un
incontro fra molta gente che poi è finita a fare quello che faceva
lì di mestiere, fra fonici, dj, musicisti, camerieri, cuochi,
organizzatori di eventi, educatori...era un'officina di persone che
anziché non fare niente della propria giornata aveva trovato uno
spazio per realizzare qualcosa, e aveva preso a piene mani questa
possibilità. Era un grande gruppo ed è ancora unito, ci siamo
rivisti giusto ieri in una serata in “stile Palazzo Granaio”
sempre a Settimo Milanese, al Castelletto Music Garden. Sapere che
con un gruppo di persone tu puoi fare qualcosa mi ha dato tanto, mi
ha fatto capire anche che se non hai lo spazio impegnandoti puoi
comunque trovarlo nella vita, perché nessuno ti imbocca ma se sai
prendere e hai voglia di fare qualcosa costruirai. Vederlo chiudere è
stata una mortificazione, ma fa parte della maturità di ognuno
capire che anche le cose belle finiscono: era come una casa per tutti
noi, ci organizzavo feste da anche settecento persone alla volta, era
l'età giusta per farlo e anche se poi è finita mi porto dentro più
le cose positive che mi ha lasciato. Era finito il periodo
dell'università assieme a tante altre cose ed in più ha chiuso
Palazzo Granaio: forse era un capitolo da chiudere obbligatoriamente
per l'evoluzione di tutti noi.
Nell'anno
di Expo, coi tanti volontari pagati una miseria, una canzone come
L'amore ai tempi del precario diventa ancora più attuale.
Anche molti testi dell'ultimo album vertono sulla spersonalizzazione
causata dal lavoro, come l'ultimo singolo Uno alla volta:
secondo te come si può sconfiggere la disillusione che attanaglia
molti giovani oggi?
Non per niente il video di Uno alla volta è ambientato nella
Milano di Expo. Io so che il lavoro è importante, perché siamo in
una società con un certo tipo di economia e quindi bisogna avere dei
soldi per poterli convertire in beni primari e, per chi ne ha tanti,
anche in vizi. Possiamo anche cambiare le cose e provare a fare una
rivoluzione, ma fino ad allora le regole del gioco sono quelle, che
ci piaccia o no. Non fa bene però continuare a pensare alla crisi o
al fatto che qualcuno debba darti un lavoro: so che c'è gente che ha
studiato all'università per poi ritrovarsi ad Expo, ad essere preso
per il culo ricevendo una miseria mentre intorno hai opere da milioni
di euro, ma non bisogna comunque perdere la fiducia in noi stessi. Il
problema è anzi che non bisogna riporre così tanta fiducia in
qualcuno che non sia noi stessi: aspettiamo sempre che qualcosa
cambi, che qualcuno possa darci delle opportunità, che ritornino
tempi in cui fare di nuovo un sacco di soldi, ma io mi sono stancato
di aspettare il miracolo dal cielo o dalla borsa. Non ci fidiamo dei
politici? Bene, agiamo di conseguenza, sforziamoci di immaginare un
nuovo futuro ed un nuovo tipo di essere umano che possa basare di
meno la sua vita sul lavoro dato da altri e cerchi di basarlo su ciò
per cui si sente di essere nato. E' un'utopia, lo so, ma non posso
dirti altro, perché non rappresenterei me stesso ed il mio pensiero
altrimenti: quando avevo quindici anni mio padre è stato messo in
cassa integrazione, lo vedevo come era in quei mesi, e mi sono
permesso l'arbitrarietà di decidere che, almeno finché ci fossi
riuscito, non avrei mai messo né me né le persone a cui voglio bene
nelle mani di qualcun altro. Vedevo il suo umore e le sue
preoccupazioni mentre il suo capo cambiava due Mercedes al mese, ci
saranno anche capi molto bravi ma ci sono anche quelle merde lì ed
io non voglio avere a che fare con quel sistema. Non predico che uno
non debba cercare lavoro, espongo solo il mio punto di vista e sono
sicuro che in Italia siamo in tanti a pensarla così, almeno quelli
che hanno un lavoro creativo: a quelli che cercano solo un posto
qualsiasi va bene sperare che la crisi passi, per gli altri questo è
quasi un periodo di opportunità. Non voglio dire “che bello c'è
la crisi”, ci mancherebbe, ho trent'anni e rappresento in pieno
quella generazione a cui hanno detto che dovevamo laurearci e, una
volta che l'abbiamo fatto, ci hanno detto che non c'era più lavoro e
sarebbe stato meglio se avessimo lavorato già dai sedici anni perché
così avremmo avuto esperienza, ci hanno parlato di austerità quando
da piccoli vedevamo un'Italia che sperperava a destra e a manca: ora
sta a noi inventarci un altro uomo, uno che pensi che il lavoro
nobilita se è il tuo perché altrimenti ti debilita, uno che se ha
preso una laurea in comunicazione di cui non gliene frega niente
abbia le palle di dire “sono il più grande esperto di piante
grasse del mondo e di quello allora mi voglio occupare, mi piacciono
i cactus”.
In “L'amore ai tempi del precario” cito la stagista non a caso,
perché è l'esempio principe di chi spera di arrivare da qualche
parte pur sapendo benissimo che tanto, finito il periodo di stage, la
lasceranno a casa per prendere un altro stagista al suo posto, ed è
orribile. Io la gavetta la consiglio e nel mio mestiere me la sono
fatta, mi interessava suonare e l'ho fatto anche gratis, cosa che
oggi non farei per questione di rispetto, ma fare gli stagisti
significa diventare degli aspiranti, a cosa non si sa neanche: la
bottega artigiana, quella sì che ti insegnava un mestiere, un valore
inestimabile che vale più di tre anni di università. Le prossime
generazioni nasceranno senza il pensiero che la vita debba per forza
risolversi in una parte di lavoro ed in una parte di personalità
nostra, ma riusciranno a coniugare le due cose: l'unico modo per
attraversare i diversi periodi è avere un centro nostro che sia
composto da quello che ci piace fare al di là del periodo storico
che stiamo vivendo, non dobbiamo sottostare a quello che ci dicono
andare di moda in quel momento al telegiornale o sentirci sbagliati
se decidono che non siamo adatti a quel tipo di mondo, perché non
avremo bisogno di andare a chiedere qualcosa a loro e senza dover far
male a nessuno. Se vuoi essere meno frustrato nella vita devi fare
quello che ti piace, punto, guadagnerai di meno ma sarai felice. Ai
tempi i nostri genitori hanno ingoiato quei rospi per dei soldi che
ora non ci sogniamo neanche da lontano, ci stanno dicendo chiaramente
che non li vedremo e non vedremo manco la pensione, quindi non resta
che perdersi andando per la propria strada anche se vorrà dire,
estremizzando, morire più giovani ma più felici. Non sarà la
risposta definitiva perché non pretendo di averla, sarà difficile e
lo capisco, ma è l'unica soluzione che ho.
Ho visto
che hai fatto qualche tempo fa un tributo a De Andrè, e a breve a
Desio dovrai farne un altro a Battiato. Cosa ci puoi raccontare di
più riguardo a questi progetti?
Il mio lavoro è fare il musicista, il più delle volte solo chitarra
e voce cantando un po' di tutto, anche all'estero quando capita.
Negli anni ho preferito evitare di fare cover miste perché
concentrarmi su un progetto monografico è anche una occasione di
studio, per interiorizzare questi artisti che amo tantissimo. Al
momento faccio dei monografici su De Andrè, Battisti, Battiato e
Radiohead, il primo con Teo Manzo de La Linea Del Pane e gli altri
con il nostro chitarrista Giuseppe Magnelli. Queste serate hanno
riscosso un successo che neanche mi aspettavo, li abbiamo fatti anche
nei teatri recentemente ed anche per il futuro abbiamo richieste in
questo tipo di spazi. Nel caso di De Andrè cantiamo entrambi in modo
da reinterpretarlo e riviverlo in due, con tutto l'ovvio rispetto del
caso, senza dover per forza lasciare la responsabilità ad una sola
persona di ritrovarsi ad imitare lo stile di una personalità così
ingombrante, è un progetto che sta avendo molta fortuna, con una
settantina di brani di repertorio che variamo a seconda
dell'occasione, e presto lo porteremo anche nella piazza principale
di Cantù. Con Battiato, Battisti e Radiohead c'è invece Giuseppe
alla chitarra elettrica che fa tutti questi suoni effettatissimi, io
chitarra acustica e voce, e sono live più interattivi e rock. Sono
arrivato a questo perché, da cantautore e soprattutto cantante,
interpretare qualcosa per me è fondamentale e mi accresce far
conoscere altri artisti attraverso il mio canto: è un lavoro di
fino, come ho già detto anche un'occasione di studio, cerco di agire
con rispetto senza stravolgere se non con un motivo valido ma sto
ottenendo molte soddisfazioni da queste situazioni.
Come mai il
cambio di etichetta, da Via Audio a Camarecords?
Con le etichette abbiamo sempre avuto un rapporto di indipendenza,
ovvero uscivamo per loro ma gestivamo le nostre cose in piena
libertà. In questo caso c'è anche da dire che Camarecords è
l'etichetta di Nicolò Fragile, il produttore del disco, ed è stato
logico far uscire quindi l'album con loro.
Ho visto
che hai partecipato ad alcune partite della nazionale cantanti: come
è venuta fuori questa opportunità?
Io sono da due anni e mezzo una delle voci principali dei Rezophonic,
che è già di suo una specie di nazionale di artisti visto che ci
sono Olly dei The Fire, il cantante dei Timoria, il bassista dei
Negrita, il bassista de Le Vibrazioni, ha collaborato anche
Caparezza... facciamo pozzi in Africa suonando in giro, e ad un certo
punto è venuta fuori l'opportunità, attraverso la nazionale artisti
tv, di partecipare col gruppo ad una importante manifestazione
benefica in Russia. Serviva uno che sapesse anche cantare oltre che
giocare a calcio, cosa che non so fare tra l'altro, alla fine sono
stato scelto io e mi sono ritrovato a giocare a Mosca sia l'anno
scorso che quest'anno. Abbiamo perso calcisticamente visto che fra
sedici nazioni siamo arrivati decimi, ma come gruppo siamo arrivati
primi entrambi gli anni: è stata una bella situazione, una specie di
incontro/scontro tutte le sere, anche se c'è da dire che sul palco
siamo tutti pacifisti ma sul campo da calcio le persone si incazzano
come bisce...per fortuna non ho questo “morbo” del pallone ed ho
potuto assorbire solo le cose belle, anche perché tifavo dalla
panchina visto che non mi facevano giocare!
Intervista di Stefano Ficagna
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