24 luglio 2015

Intervista a Fabrizio Pollio, ospite di un nostro secret garden a Oleggio

Abbiamo approfittato del secret concert di Fabrizio Pollio in quel di Oleggio per parlare assieme a lui di svariati argomenti, oltre che dei suoi progetti musicali fra Io? Drama ed altro. Ecco quello che ci ha detto.

Come mai avete chiamato il vostro ultimo album Non resta che perdersi?
Tantissime canzoni che ho scritto per l'album avevano come tema il concetto di perdersi: riguardando i testi una volta scelti i pezzi che lo avrebbero composto ho visto che toccavo varie volte l'argomento sotto diversi punti di vista, dallo smarrimento all'abbandonarsi al piacere o anche al perdersi di vista, allontanarsi...avendo una canzone proprio quel titolo l'ho vista quasi come un consiglio per affrontare questo periodo storico. Mi piace pensare che qualcuno possa dire “non resta che perdersi”, inteso come quando vai in una città nuova e decidi di perderti in essa per scoprirla a fondo. Anche la copertina vuole rimarcare il concetto, con le due anziane signore in cammino su questa spiaggia senza tempo e senza luogo.


Com'è stato scrivere per la prima volta un album senza Fabrizio Vercellino?
Gran parte dell'album è stato scritto in tre, in una formazione quindi ridotta all'osso: è stato anche bello e formativo, perché ci ha aiutato a capire meglio le caratteristiche sia mie che di Vito e Mamo, ed abbiamo così creato un suono compatto e monolitico. A metà registrazione è però entrato nella formazione anche Giuseppe Magnelli, il nostro nuovo chitarrista nonché un amico ed un musicista che abbiamo sempre stimato, ed il suo ingresso ha cambiato molto il gruppo. C'è stata quindi una prima fase di azzeramento e composizione in tre ed una seconda in cui siamo andati a riarrangiare ed evolvere il suono. La mancanza di Vercellino la si può sentire in “Non resta che perdersi”, ma quello che sono gli Io? Drama con Magnelli li si potrà sentire appieno col prossimo album: Giuseppe è uno che lascia il suo marchio, arricchisce molto il suono e si sente quando c'è, l'album è però stato iniziato senza di lui e quindi possiamo definirlo il passaggio di mezzo di una metamorfosi di cui sono anche io curioso di vedere il risultato.

In Chiedilo alla cenere scrivi “M'informo per stupirmi, m'informo per comprendermi”, ma in A piedi scalzi affermi che “La verità è un'altra stupida bugia da cui difendersi: come mai?
Le due canzoni trattano temi diversi. In Chiedilo alla cenere c'è un dialogo con sé stessi al di là del tempo, ci si interroga chiedendo a quello che resta una volta che tutto è bruciato. Il pezzo inizia fra l'altro con una sorta di marcia funebre intonata da quello che sembrano tromboni, mentre in realtà vengono da una ripresa fatta col nostro produttore Iacopo Pinna camminando per Porto Cervo a ferragosto: abbiamo sentito ad un certo punto tutti gli yatch che suonavano il clacson in onore della Madonna al tramonto, e vedere questo simbolo dello sfarzo di una società di opulenza intonare questa marcia funebre ci ha fatto subito venire voglia di registrarlo, ed è così finita come preambolo al pezzo. La frase che citi sta ad indicare l'informarmi per chi capire chi sono, infatti ad un certo punto dice “raccontami di te, di quando non ero nato, raccontami di te, dimmi dove sei stato”, e nel proseguo vengo travolto da tutti i fantasmi del passato, del presente e del futuro che uno può avere che si conciliano attorno a me arrivando alla catarsi: da quell'informarsi iniziale si arriva ad una presa di coscienza di quiete interiore.
A piedi scalzi invece è una canzone che cerca di mettere in luce alcuni bigottismi e tabù riguardo il piacere e l'edonismo: è la verità istituzionale quella da cui difendersi, come se non ne avessimo già abbastanza di bugie da scansare nella vita. Il concetto è quello, infatti dopo nel testo recita “sua santità un'altra stupida bugia potrebbe offendermi”, ne ho piene le palle di farmi vendere da qualcun altro la sua verità quando sappiamo benissimo, ed in maniera evidente, che è una grande cazzata. E' una canzone critica, che si risolve nel ritornello in cui affermo di respirare ancora nonostante tutto, sono vivo e non è un caso che il brano successivo reciti “sono vivo quando mi va se mi va, sono vivo perché mi va”.

Molti dei vostri video mi sono rimasti impressi per l'originalità, quello di Nel naufragio ad esempio, ma ero curioso di sapere qualcosa di più riguardo a quello di Vergani Marelli 1. Com'è nata l'idea di di girarlo con uno stile che ricorda e cita videogiochi come Doom?
L'idea è partita da Seenfilm, ed è stato girato da Stefano Bertelli, che ha lavorato fra gli altri con Marta Sui Tubi e Caparezza. Sentendo la canzone si è fatto prendere da questa idea del condominio e ne ha costruito una sorta di imitazione videoludica, costruita coi cartoni e stilisticamente affine a Doom, da cui la pistola: nel ritornello inoltre dico “che indifferenza fa una vita in più”, e si lega perfettamente al concetto di vita da guadagnare o perdere alla fine di un livello in un videogioco. Così è nata l'idea, esasperando anche il concetto dell'essere, all'interno di un condominio, quasi anonimi, ognuno con la sua personalità ma con un ruolo ben definito, come in un videogioco appunto: Doom ci è sembrato così il modo giusto per veicolare il concetto che voleva esprimere la canzone, in soggettiva e senza essere troppo prolissi.

Proprio in questa canzone affermi che “Fare il musicista non è che sia sta grande idea”. Perché proseguire allora?
La canzone è molto autobiografica, tant'è che Vergani Marelli 1 è la via dove ho vissuto a Milano per un certo periodo. Come tanti ragazzi usciti di casa dovevo mantenermi, e facevo mille lavori che non riguardavano il mio sogno, che rimaneva sempre quello della musica: quando ho scritto quella frase l'ho fatto senza pensare di lasciare ma soltanto per dire quello che viene in mente a tutti al riguardo, perché poi ti bastano un accordo e la tua voce da solo nella stanza, fare un concerto o creare un arrangiamento al computer per ripagarti di tutto. Poi può diventare veramente un lavoro, per me negli anni è stato così, ma quando ho scritto quei versi non ero ancora così convinto di potercela fare a vivere solo di quello: oggi lo faccio, e per quanto un musicista indipendente ovviamente non è un petroliere e non si vedono i miliardi, che neanche mi interessano, posso dire di stare facendo quello che voglio...ai tempi non era così, e scrivendo di me stesso mi sono accorto che alla fine eravamo tutti sulla stessa barca. L'ho scritta inoltre nell'anno dell'esplosione della crisi e non si sentiva parlare d'altro che della mancanza di lavoro, ed uno dei motivi che mi hanno spinto a percorrere questa strada è stato proprio il realizzare che, se tutti vengono licenziati, era quasi un obbligo cercare di fare della mia passione un lavoro vero e proprio e non corrodermi il fegato come facevano altri.

Oltre a fare il musicista per un certo periodo sei stato anche all'interno della Gestione di Palazzo Granaio a Settimo Milanese. Cosa ti è rimasto di quella esperienza?
Mi è rimasto tantissimo. Palazzo Granaio è stato, e forse sarà ancora anche se sotto altre vesti, una realtà eccezionale, un incontro fra molta gente che poi è finita a fare quello che faceva lì di mestiere, fra fonici, dj, musicisti, camerieri, cuochi, organizzatori di eventi, educatori...era un'officina di persone che anziché non fare niente della propria giornata aveva trovato uno spazio per realizzare qualcosa, e aveva preso a piene mani questa possibilità. Era un grande gruppo ed è ancora unito, ci siamo rivisti giusto ieri in una serata in “stile Palazzo Granaio” sempre a Settimo Milanese, al Castelletto Music Garden. Sapere che con un gruppo di persone tu puoi fare qualcosa mi ha dato tanto, mi ha fatto capire anche che se non hai lo spazio impegnandoti puoi comunque trovarlo nella vita, perché nessuno ti imbocca ma se sai prendere e hai voglia di fare qualcosa costruirai. Vederlo chiudere è stata una mortificazione, ma fa parte della maturità di ognuno capire che anche le cose belle finiscono: era come una casa per tutti noi, ci organizzavo feste da anche settecento persone alla volta, era l'età giusta per farlo e anche se poi è finita mi porto dentro più le cose positive che mi ha lasciato. Era finito il periodo dell'università assieme a tante altre cose ed in più ha chiuso Palazzo Granaio: forse era un capitolo da chiudere obbligatoriamente per l'evoluzione di tutti noi.

Nell'anno di Expo, coi tanti volontari pagati una miseria, una canzone come L'amore ai tempi del precario diventa ancora più attuale. Anche molti testi dell'ultimo album vertono sulla spersonalizzazione causata dal lavoro, come l'ultimo singolo Uno alla volta: secondo te come si può sconfiggere la disillusione che attanaglia molti giovani oggi?
Non per niente il video di Uno alla volta è ambientato nella Milano di Expo. Io so che il lavoro è importante, perché siamo in una società con un certo tipo di economia e quindi bisogna avere dei soldi per poterli convertire in beni primari e, per chi ne ha tanti, anche in vizi. Possiamo anche cambiare le cose e provare a fare una rivoluzione, ma fino ad allora le regole del gioco sono quelle, che ci piaccia o no. Non fa bene però continuare a pensare alla crisi o al fatto che qualcuno debba darti un lavoro: so che c'è gente che ha studiato all'università per poi ritrovarsi ad Expo, ad essere preso per il culo ricevendo una miseria mentre intorno hai opere da milioni di euro, ma non bisogna comunque perdere la fiducia in noi stessi. Il problema è anzi che non bisogna riporre così tanta fiducia in qualcuno che non sia noi stessi: aspettiamo sempre che qualcosa cambi, che qualcuno possa darci delle opportunità, che ritornino tempi in cui fare di nuovo un sacco di soldi, ma io mi sono stancato di aspettare il miracolo dal cielo o dalla borsa. Non ci fidiamo dei politici? Bene, agiamo di conseguenza, sforziamoci di immaginare un nuovo futuro ed un nuovo tipo di essere umano che possa basare di meno la sua vita sul lavoro dato da altri e cerchi di basarlo su ciò per cui si sente di essere nato. E' un'utopia, lo so, ma non posso dirti altro, perché non rappresenterei me stesso ed il mio pensiero altrimenti: quando avevo quindici anni mio padre è stato messo in cassa integrazione, lo vedevo come era in quei mesi, e mi sono permesso l'arbitrarietà di decidere che, almeno finché ci fossi riuscito, non avrei mai messo né me né le persone a cui voglio bene nelle mani di qualcun altro. Vedevo il suo umore e le sue preoccupazioni mentre il suo capo cambiava due Mercedes al mese, ci saranno anche capi molto bravi ma ci sono anche quelle merde lì ed io non voglio avere a che fare con quel sistema. Non predico che uno non debba cercare lavoro, espongo solo il mio punto di vista e sono sicuro che in Italia siamo in tanti a pensarla così, almeno quelli che hanno un lavoro creativo: a quelli che cercano solo un posto qualsiasi va bene sperare che la crisi passi, per gli altri questo è quasi un periodo di opportunità. Non voglio dire “che bello c'è la crisi”, ci mancherebbe, ho trent'anni e rappresento in pieno quella generazione a cui hanno detto che dovevamo laurearci e, una volta che l'abbiamo fatto, ci hanno detto che non c'era più lavoro e sarebbe stato meglio se avessimo lavorato già dai sedici anni perché così avremmo avuto esperienza, ci hanno parlato di austerità quando da piccoli vedevamo un'Italia che sperperava a destra e a manca: ora sta a noi inventarci un altro uomo, uno che pensi che il lavoro nobilita se è il tuo perché altrimenti ti debilita, uno che se ha preso una laurea in comunicazione di cui non gliene frega niente abbia le palle di dire “sono il più grande esperto di piante grasse del mondo e di quello allora mi voglio occupare, mi piacciono i cactus”.
In “L'amore ai tempi del precario” cito la stagista non a caso, perché è l'esempio principe di chi spera di arrivare da qualche parte pur sapendo benissimo che tanto, finito il periodo di stage, la lasceranno a casa per prendere un altro stagista al suo posto, ed è orribile. Io la gavetta la consiglio e nel mio mestiere me la sono fatta, mi interessava suonare e l'ho fatto anche gratis, cosa che oggi non farei per questione di rispetto, ma fare gli stagisti significa diventare degli aspiranti, a cosa non si sa neanche: la bottega artigiana, quella sì che ti insegnava un mestiere, un valore inestimabile che vale più di tre anni di università. Le prossime generazioni nasceranno senza il pensiero che la vita debba per forza risolversi in una parte di lavoro ed in una parte di personalità nostra, ma riusciranno a coniugare le due cose: l'unico modo per attraversare i diversi periodi è avere un centro nostro che sia composto da quello che ci piace fare al di là del periodo storico che stiamo vivendo, non dobbiamo sottostare a quello che ci dicono andare di moda in quel momento al telegiornale o sentirci sbagliati se decidono che non siamo adatti a quel tipo di mondo, perché non avremo bisogno di andare a chiedere qualcosa a loro e senza dover far male a nessuno. Se vuoi essere meno frustrato nella vita devi fare quello che ti piace, punto, guadagnerai di meno ma sarai felice. Ai tempi i nostri genitori hanno ingoiato quei rospi per dei soldi che ora non ci sogniamo neanche da lontano, ci stanno dicendo chiaramente che non li vedremo e non vedremo manco la pensione, quindi non resta che perdersi andando per la propria strada anche se vorrà dire, estremizzando, morire più giovani ma più felici. Non sarà la risposta definitiva perché non pretendo di averla, sarà difficile e lo capisco, ma è l'unica soluzione che ho.

Ho visto che hai fatto qualche tempo fa un tributo a De Andrè, e a breve a Desio dovrai farne un altro a Battiato. Cosa ci puoi raccontare di più riguardo a questi progetti?
Il mio lavoro è fare il musicista, il più delle volte solo chitarra e voce cantando un po' di tutto, anche all'estero quando capita. Negli anni ho preferito evitare di fare cover miste perché concentrarmi su un progetto monografico è anche una occasione di studio, per interiorizzare questi artisti che amo tantissimo. Al momento faccio dei monografici su De Andrè, Battisti, Battiato e Radiohead, il primo con Teo Manzo de La Linea Del Pane e gli altri con il nostro chitarrista Giuseppe Magnelli. Queste serate hanno riscosso un successo che neanche mi aspettavo, li abbiamo fatti anche nei teatri recentemente ed anche per il futuro abbiamo richieste in questo tipo di spazi. Nel caso di De Andrè cantiamo entrambi in modo da reinterpretarlo e riviverlo in due, con tutto l'ovvio rispetto del caso, senza dover per forza lasciare la responsabilità ad una sola persona di ritrovarsi ad imitare lo stile di una personalità così ingombrante, è un progetto che sta avendo molta fortuna, con una settantina di brani di repertorio che variamo a seconda dell'occasione, e presto lo porteremo anche nella piazza principale di Cantù. Con Battiato, Battisti e Radiohead c'è invece Giuseppe alla chitarra elettrica che fa tutti questi suoni effettatissimi, io chitarra acustica e voce, e sono live più interattivi e rock. Sono arrivato a questo perché, da cantautore e soprattutto cantante, interpretare qualcosa per me è fondamentale e mi accresce far conoscere altri artisti attraverso il mio canto: è un lavoro di fino, come ho già detto anche un'occasione di studio, cerco di agire con rispetto senza stravolgere se non con un motivo valido ma sto ottenendo molte soddisfazioni da queste situazioni.

Come mai il cambio di etichetta, da Via Audio a Camarecords?
Con le etichette abbiamo sempre avuto un rapporto di indipendenza, ovvero uscivamo per loro ma gestivamo le nostre cose in piena libertà. In questo caso c'è anche da dire che Camarecords è l'etichetta di Nicolò Fragile, il produttore del disco, ed è stato logico far uscire quindi l'album con loro.

Ho visto che hai partecipato ad alcune partite della nazionale cantanti: come è venuta fuori questa opportunità?
Io sono da due anni e mezzo una delle voci principali dei Rezophonic, che è già di suo una specie di nazionale di artisti visto che ci sono Olly dei The Fire, il cantante dei Timoria, il bassista dei Negrita, il bassista de Le Vibrazioni, ha collaborato anche Caparezza... facciamo pozzi in Africa suonando in giro, e ad un certo punto è venuta fuori l'opportunità, attraverso la nazionale artisti tv, di partecipare col gruppo ad una importante manifestazione benefica in Russia. Serviva uno che sapesse anche cantare oltre che giocare a calcio, cosa che non so fare tra l'altro, alla fine sono stato scelto io e mi sono ritrovato a giocare a Mosca sia l'anno scorso che quest'anno. Abbiamo perso calcisticamente visto che fra sedici nazioni siamo arrivati decimi, ma come gruppo siamo arrivati primi entrambi gli anni: è stata una bella situazione, una specie di incontro/scontro tutte le sere, anche se c'è da dire che sul palco siamo tutti pacifisti ma sul campo da calcio le persone si incazzano come bisce...per fortuna non ho questo “morbo” del pallone ed ho potuto assorbire solo le cose belle, anche perché tifavo dalla panchina visto che non mi facevano giocare!

Intervista di Stefano Ficagna

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