L’ultimo disco degli Sport, Bon Voyage, mi coglie impreparato. D’estate sono più spinto ad ascoltare frivolezze e tamarrate punk rock varie: sarà per il caldo, sarà per la pesantezza dei programmi in televisione e sarà perché si esce di più rispetto agli altri periodi dell’anno, ma da giugno a settembre inoltrato l’emocore non esiste, per me. Eppure il terzo lavoro su disco degli Sport da Lione mi ha davvero spiazzato. È un’uscita relativamente datata, se si considera la pubblicazione il primo gennaio di quest’anno, e mi rammarico di non averci fatto attenzione prima.
In sostanza, Bon Voyage è un gran disco. Un disco che fa respirare in un marasma di schifezza, che fa sperare nella grandine sulla macchina nuova del tuo vicino di casa più stronzo, che ti fa arrivare a casa sbronzo con ancora il rimorso di essertene andato via quando ancora tutti erano ancora al bar. Frutto di una pantagruelica co-produzione di etichette tra cui si annoverano Adagio 830, La Agonia de Vivir e Crapoulet, conta dieci canzoni più un’Intro, spruzzando furia e discordanze come se non ci fosse un domani. Liriche in inglese e titoli che si rifanno a personaggi famosi (da Andrè the Giant alla sciatrice Ulrike Maier), l’album è un contorno a base di Washington per una pietanza screamo di stampo nettamente europeo. Urla che in Italia abbiamo avuto solo con i primi due Fine Before You Came e chitarre che, nei pezzi rallentati, sanno alla grande di Jets to Brazil. Ulrike Maier è sicuramente il pezzo con più bramosità dell’intero lavoro anche se, parlandoci chiaro, Eric Tabarly e Charles Lindberg sono due veri gioielli, il primo lamentoso ed il secondo esultante e isterico. E sentite che staccone alla fine.I quattro kids non scherzano per niente, e per questo entrano di potenza tra gli ascolti indispensabili per questa estate post-Mondiale. Andrea Vecchio
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