2 dicembre 2004

Premio "Provincia cronica" (II edizione - sezione racconti)
Luigi Di Legge - Non lontano da qui, Londra

Quando partii per Londra avevo in tasca un telex di prenotazione per quattordici notti in un ostello della gioventù, un blocchetto di travellers cheques dal valore di circa 300 sterline e qualche indumento di ricambio. Mi imbarcai su un volo economico, nel 1977 si chiamavano voli charter. Era il mese di agosto e a novembre avrei compiuto diciotto anni. Non avevo mai fatto un viaggio con l’aereo, così come non avevo fatto un sacco di altre cose.
Arrivai a Londra nel primo pomeriggio, e con un taxi nero che mi sembrava enorme, arrivai all’ostello.
Dal bancone del ricevimento vidi due ragazzi di colore con tante treccine, lunghe lunghe, che ridacchiavano e ascoltavano musica reggae. Un altro ragazzo, questo bianco, se ne stava sdraiato su un divanetto con in mano una strana sigaretta, e guardava il soffitto. Mi colpì le narici un odore di fumo dolce. Stanno ancora preparando il pranzo, pensai.
Forse la mia ingenuità era eccessiva: ascoltavo Baglioni, non fumavo, mi piacevano gli spaghetti alla chitarra e mi ero preso una cotta per la compagna di banco. La ragazza della reception notò il mio imbarazzo:- It has been a misunderstanding at the moment of the reservation, yours ostello is an other, - disse sorridendo. E mi scrisse il nuovo indirizzo.
Nel nuovo ostello mi ero ritrovato in camera con Leonardo, un romano della mia stessa età che diventò ben presto il mio amico londinese.
Stavamo quasi sempre insieme, e parlavamo. Non ho mai parlato così tanto in vita mia. Esploravamo territori sterminati; discutevamo di politica, dell’Inter e della Roma, di religione, della matriciana, di ragazze, di musica. Ecco a Leonardo interessavano soprattutto gli ultimi due argomenti.
Amava il rock con entusiasmo e competenza. Così dopo una colta spiegazione relativa alla musica degli Shadow, mi disse: - Domani se và al Marquee Club.-
Londra era musica; e che musica, rock, punk, country, le note le potevi strappare dai muri o fondere nella metropolitana. Ricordo che anche da un fruttivendolo ascoltai Bob Dylan. O forse il fruttivendolo era Bob Dylan. Me la mangiavo quella musica potente.
E mi piaceva.
Quando entrammo al Marqee il livello sonoro del locale era al limite della mia tolleranza acustica, si esibiva un gruppo di Brighton che suonava hard rock, stile Deep Purple. Il pubblico era formato per lo più da giovani inglesi e qualche punk, tutti ballavano. Il pavimento era bagnato del nostro sudore, ci si scivolava. Il resto era rulli di batteria, birra e gioia.
Stavo bene. Pensai con piacere all’incontro con una calda armonia finora sconosciuta. Desideravo crescere.
Annunciai a me stesso che avrei cominciato a fumare ma non avevo mai acceso una sigaretta, mi dissi che per questo evento avrei scelto il meglio. Avevo visto sulle macchine di formula uno la pubblicità delle John Player Special, scritta bianca su sfondo nero. Meraviglioso! Nella mia ingenuità, pensavo fossero sigarette nobili, che davano eleganza. Una mattina uscii diretto dal tabaccaio: - A package John Player Special, those black ones please.- Il tabaccaio sorrise di sottecchi e mi passò il prezioso pacchetto. Pagai una cifra salatissima. Me n’accesi una e mi sentii un dio.
Con Leonardo giravamo per Londra, voraci di conoscenza. Tutto era superbamente diverso dalla mia mediocre periferia. Guardavo entusiasta anche le cabine telefoniche, me le sarei portate a casa. Salivo sui bus a due piani come su un cavallino della giostra. Eppoi erano rossi, rossi, rossi.
Ci fermavamo solo per mangiare, nei Kentucky Fried Chicken. Pollo, patatine, e sapore di olio fritto. Ricordo le mani unte e Coca Cola gelata in gola.
Dopo il pranzo, Leonardo “attaccava” con il suo secondo argomento: le donne. Lui votava radicale, diceva di avere una fidanzata. Gli chiesi:- Sei innamorato?- Lui mi fulminò: - Ce scopo e basta.-
Queste due frasi secche, probabilmente, ci fecero pensare di essere entrati in buona confidenza. Il discorso scivolò sulla trasgressione, Leonardo dopo una pausa intensa, scoccò la domanda che gli girava in testa da parecchio tempo: - Tu “fumi”? – Orgoglioso della mia scelta di qualche giorno prima, estrassi dalla sacca il mio lucidissimo pacchetto nero: - Certo che fumo, ne vuoi una? –
- Luigi tu non “fumi”.-
- Ma come guarda ho le sigarette.-
- Occhei Luì. Ma tu non “fumi”.- Ripetè Leonardo, un po’ sorpreso e un po’ intenerito.

Invece lui “fumava”, e parecchio. Ogni tanto mi diceva: - Oggi me và de “sconvolgerme”.- E spariva chi sa dove, o trasformava la camera in una fumeria d’oppio.
Così quando Leonardo si “sconvolgeva”, me ne andavo a Piccadilly Circus.
Quel pomeriggio in cielo spargeva una luce bianca, e Londra odorava di hamburger. Mi sedetti tra i ragazzi. Qualcuno si alzava, qualcuno arrivava. Mi ritrovai seduto con una ragazza tedesca, aveva diciannove anni e si chiamava Elke.
Instaurammo uno sgangherato dialogo. Lei parlava un ottimo inglese, invece il mio era scolastico tendente al primitivo IoTarzanTuJane. In ogni caso le parole servivano a ben poco per quello che doveva succedere. Ora la vedevo bene, di fronte ai miei occhi. Ma chi l’aveva mai vista una tedesca dal vivo? La televisione a colori in Italia era appena arrivata, ma non era arrivata a casa mia. Gli unici tedeschi che avevo visto erano i soldati nazisti disegnati in bianco e nero sugli albi di Super Eroica, i fumetti di guerra. – Blond hair and blue eyes, Luiggi.- mi disse afferrandomi la mano e indicando i suoi occhi e i capelli. Glieli accarezzai, in punta di polpastrelli e vidi una giovane rughina formarsi sulle labbra. Prima di baciarci disse ancora, Luiggi, la più eccitante storpiatura fonetica che abbia mai ascoltato. Credetti di provare un sentimento strano che assomigliava curiosamente all’amore.
Sotto la camicetta la mia mano concava palpava un seno pesante, lei lasciò fare, poi stringendomela nella sua mi guidò verso un appartamento. Lei lavorava in un pub con due amiche, con le quali condivideva anche l’abitazione. Non doveva essere la prima volta che una delle ragazze portava in casa un ragazzo, perché quando entrammo le due amiche di Elke se ne uscirono zampettanti, seguite da allegri risolini.
Elke non la vidi mai più. Non la cercai neppure. Pensavo che Londra fosse piena di Elke che mi volevano baciare.
Intanto a Wembley, il giorno prima della mia partenza, ci sarebbe stato il concerto dei Led Zeppelin.
Ci andai con Leonardo; l’ultimo gioco insieme, poi anche lui sparì nella sua Roma. Sul prato di quello stadio, scrutai lo sciogliersi del pomeriggio nello scuro della sera, su migliaia di giovani.”Quando tutti sono uno e uno è tutti” diceva la canzone che inaugurava il concerto. Idiomi sconosciuti suonavano nelle vene, e provai una prodigiosa, quanto indistinta, coscienza di libertà.

La smart parcheggiò vicino alla gelateria, l’impianto stereo diffondeva le note di Starway to heaven. Insieme a mia moglie, ce ne stavamo seduti fuori dal locale, davanti a due coppette di gelato. Erano passati trentanni da quella sera, e adesso ancora quella canzone a bussare negli occhi.

- Luigi cos’hai? – Chiese mia moglie

- Niente.-

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