Premio "Provincia cronica" (III edizione - sezione racconti)
Luca Bonaguidi - Venti
“You can't always get what you want”
Rolling Stones
I Rolling Stones e la finestra aperta, il forte vento impatta sulla tenda, scuotendola. Le sigarette fumate a metà, poi spente, e la cenere che si alza e cade altrove. Un bicchiere di vino, che qualcuno direbbe mezzo pieno e qualcun'altro mezzo vuoto.
Un grande prato verde si stende fuori dai condomini nella domenica dei pranzi consumati lentamente, la tovaglia appena lavata e una fetta di torta, tra malinconie quotidiane e ritmici riposi a cadenza settimanale, stancamente abitudinari.
Inedia emozianale, la chiameremo.
Altri stanchi condomini disegnano i bordi del prato, anticipando le colline liete, le colline degli altri, delle domeniche felici e concilianti, quelle per cui serve percorrere una stretta strada impervia, che è sempre bello, certo, ma che ore sono, cara, si sarà fatto tardi.
A chi non piacciono le strade di collina. Eppure, restano sullo sfondo, come i ricordi, consegnate alla memoria di limpida giovinezza, a dirci chi non siamo più, quelli che non è ancora tardi, amore.
Come eravamo. Forti, terribilmente forti. Belli, perchè almeno una volta ce l'hanno detto. A tutti. Lo hanno detto proprio a tutti.
Una lunga fila di macchine costeggia il prato. Colorate, lucidate, come se non fossero lamiere di metallo. Incolonnate con disciplina, all'interno delle strisce, né troppo vicine, altrimenti ripetiamo il parcheggio, né troppo lontane, sennò ci sentiamo soli e diversi.
Eppure, era bello sentirsi soli e diversi, una volta, stretti in noi stessi e proiettati in una moltitudine variopinta di progetti e idee. Sogni, che è come dire “vedove” da un certo giorno in poi, voi capite cosa intendo e non è una strada di collina.
Il sole, d'una primavera che si annuncia, infiamma il giallo delle villette a schiera dall'altro lato del campo. La guerra in Libia è lontana, decisamente lontana.
Un bambino irrompe in scena calciando un pallone e spingendolo a grandi falcate avanti a sé, con la forza dei suoi 8 anni. Otto.
Ve lo ricordate, cosa vuol dire avere otto anni? A otto anni la Libia non esiste, la Libia è quello che dice il babbo alla mamma il lunedì sera a cena, appena prima di lamentarsi che l'insalata non è condita bene, perchè la parte del mondo in cui si è nati non è quello dove si muore sotto i caccia e le bombe, ma dove si muore in fabbrica nonostante un secolo di battaglie operaie, dove si muore in carcere più che al fronte, e di suicidio, e dove si muore per assenza di amore, però tre pasti al giorno ce li abbiamo, ed abbiamo un cane, l'abbiamo preso al canile, e una vacanza al mare, e i sacrifici che ci costa, il mutuo da estinguere e le rate del divano, quanto ci piace l'ombrellone e la cabina, le camminate in riva al mare, speriamo che quest'anno non ci siano le alghe. Che bella, la democrazia!
E ve lo ricordate, cosa vuol dire avere 40 anni? Si, quaranta. O più, naturalmente. Io non lo so proprio, ma l'ho capito da quel padre che corre dietro al bambino, dietro al suo pallone, ingrassato, si direbbe, sulla strada della calvizia, si direbbe. Si direbbe tutto e niente, sempre.
Il bambino calcia la sfera avanti e si avvia ad entrare nel rettangolo di gioco. Uno stormo di rondini si alza in volo e si disperde oltre i pini ai margini della strada, rapidamente.
Il padre si ferma e chiama suo figlio.
Checco, è qui che giocheremo.
Checco passa il pallone e urla gioiosamente.
Avviciniamoci alla porta, babbo.
Si passano la palla. Ridendo. A volte calciano in porta, ma non c'è la rete ed il pallone sfreccia lontano, rapidamente, come le rondini si, e mentre Checco corre con gioia a riprendersi il cuio calciato oltre la linea di porta, il padre respira e lo osserva beatamente. E pensa. Potessi giocare più spesso con Checco. Potesse esserci sempre, dopo un lungo inverno, una domenica di marzo e potessi esser meno solo, sempre, potessi amarmi come amo Checco.
E Checco torna col pallone e lo passa con forza al padre, che, assorto, lo lascia sfilare, a pochi passi da sé. Checco sospira, allegramente risentito.
Babbo, ma dormi?
Perchè per i bambini, o si gioca o si dorme.
Poi, fa capolino un po' di tristezza, un poco di rabbia; a volte, una vita schifosa.
Le cose della vita, voi capite cosa intendo e non sono camminate in riva al mare nè rondini che si perdono all'orizzonte.
E il padre, pensa.
Eccolo lì, il mio ragazzo, eccolo lì, giovane e forte.
E calcia il pallone verso la brughiera ai margini del campo da gioco, stavolta senza che dopo, Checco, gli chieda ancora perchè.
Ed io, Checco, riaccendo la sigaretta, contemplando il prato imperfetto su cui sono cresciuto calciando cuoio e Provincia.
Eccomi qui.
E verso altro vino all'interno del bicchiere, con i Rolling Stones ed i miei 20 anni.
Venti.
Luca Bonaguidi - Venti
“You can't always get what you want”
Rolling Stones
I Rolling Stones e la finestra aperta, il forte vento impatta sulla tenda, scuotendola. Le sigarette fumate a metà, poi spente, e la cenere che si alza e cade altrove. Un bicchiere di vino, che qualcuno direbbe mezzo pieno e qualcun'altro mezzo vuoto.
Un grande prato verde si stende fuori dai condomini nella domenica dei pranzi consumati lentamente, la tovaglia appena lavata e una fetta di torta, tra malinconie quotidiane e ritmici riposi a cadenza settimanale, stancamente abitudinari.
Inedia emozianale, la chiameremo.
Altri stanchi condomini disegnano i bordi del prato, anticipando le colline liete, le colline degli altri, delle domeniche felici e concilianti, quelle per cui serve percorrere una stretta strada impervia, che è sempre bello, certo, ma che ore sono, cara, si sarà fatto tardi.
A chi non piacciono le strade di collina. Eppure, restano sullo sfondo, come i ricordi, consegnate alla memoria di limpida giovinezza, a dirci chi non siamo più, quelli che non è ancora tardi, amore.
Come eravamo. Forti, terribilmente forti. Belli, perchè almeno una volta ce l'hanno detto. A tutti. Lo hanno detto proprio a tutti.
Una lunga fila di macchine costeggia il prato. Colorate, lucidate, come se non fossero lamiere di metallo. Incolonnate con disciplina, all'interno delle strisce, né troppo vicine, altrimenti ripetiamo il parcheggio, né troppo lontane, sennò ci sentiamo soli e diversi.
Eppure, era bello sentirsi soli e diversi, una volta, stretti in noi stessi e proiettati in una moltitudine variopinta di progetti e idee. Sogni, che è come dire “vedove” da un certo giorno in poi, voi capite cosa intendo e non è una strada di collina.
Il sole, d'una primavera che si annuncia, infiamma il giallo delle villette a schiera dall'altro lato del campo. La guerra in Libia è lontana, decisamente lontana.
Un bambino irrompe in scena calciando un pallone e spingendolo a grandi falcate avanti a sé, con la forza dei suoi 8 anni. Otto.
Ve lo ricordate, cosa vuol dire avere otto anni? A otto anni la Libia non esiste, la Libia è quello che dice il babbo alla mamma il lunedì sera a cena, appena prima di lamentarsi che l'insalata non è condita bene, perchè la parte del mondo in cui si è nati non è quello dove si muore sotto i caccia e le bombe, ma dove si muore in fabbrica nonostante un secolo di battaglie operaie, dove si muore in carcere più che al fronte, e di suicidio, e dove si muore per assenza di amore, però tre pasti al giorno ce li abbiamo, ed abbiamo un cane, l'abbiamo preso al canile, e una vacanza al mare, e i sacrifici che ci costa, il mutuo da estinguere e le rate del divano, quanto ci piace l'ombrellone e la cabina, le camminate in riva al mare, speriamo che quest'anno non ci siano le alghe. Che bella, la democrazia!
E ve lo ricordate, cosa vuol dire avere 40 anni? Si, quaranta. O più, naturalmente. Io non lo so proprio, ma l'ho capito da quel padre che corre dietro al bambino, dietro al suo pallone, ingrassato, si direbbe, sulla strada della calvizia, si direbbe. Si direbbe tutto e niente, sempre.
Il bambino calcia la sfera avanti e si avvia ad entrare nel rettangolo di gioco. Uno stormo di rondini si alza in volo e si disperde oltre i pini ai margini della strada, rapidamente.
Il padre si ferma e chiama suo figlio.
Checco, è qui che giocheremo.
Checco passa il pallone e urla gioiosamente.
Avviciniamoci alla porta, babbo.
Si passano la palla. Ridendo. A volte calciano in porta, ma non c'è la rete ed il pallone sfreccia lontano, rapidamente, come le rondini si, e mentre Checco corre con gioia a riprendersi il cuio calciato oltre la linea di porta, il padre respira e lo osserva beatamente. E pensa. Potessi giocare più spesso con Checco. Potesse esserci sempre, dopo un lungo inverno, una domenica di marzo e potessi esser meno solo, sempre, potessi amarmi come amo Checco.
E Checco torna col pallone e lo passa con forza al padre, che, assorto, lo lascia sfilare, a pochi passi da sé. Checco sospira, allegramente risentito.
Babbo, ma dormi?
Perchè per i bambini, o si gioca o si dorme.
Poi, fa capolino un po' di tristezza, un poco di rabbia; a volte, una vita schifosa.
Le cose della vita, voi capite cosa intendo e non sono camminate in riva al mare nè rondini che si perdono all'orizzonte.
E il padre, pensa.
Eccolo lì, il mio ragazzo, eccolo lì, giovane e forte.
E calcia il pallone verso la brughiera ai margini del campo da gioco, stavolta senza che dopo, Checco, gli chieda ancora perchè.
Ed io, Checco, riaccendo la sigaretta, contemplando il prato imperfetto su cui sono cresciuto calciando cuoio e Provincia.
Eccomi qui.
E verso altro vino all'interno del bicchiere, con i Rolling Stones ed i miei 20 anni.
Venti.
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