1 giugno 2017

Ommioddio, hanno ammazzato il rock'n'roll! Les Fleurs Des Maladives fra l'intenzione di seppellirlo e l'energia per resuscitarlo

Al primo maggio sono andato in quel della benemerita Cooperativa Portalupi di Vigevano a vedere il classico concerto che anche Roma gli ha copiato… forse è il contrario, fa niente. Prima che tutti ve ne usciate dicendo “e sticazzi!” arrivo al dunque: fra i gruppi presenti ce n’era uno che avevo già sentito nominare ma non avevo mai ascoltato, che da quando non posso più usare gli auricolari a lavoro mi tocca essere selettivo con la musica e mi perdo un sacco di roba, e – rullo di tamburi e sorpresa finta – erano i qui presenti Les fleurs des maladives. Non ve lo aspettavate eh? Sì? Comunque la suddetta band ha fatto un gran cazzo di casino, mi son piaciuti talmente tanto che gli ho comprato entrambi i dischi e sono rimasto d’accordo col bassista che gli avrei fatto sapere le mie impressioni sull’ultimo, ovvero il qui presente Il rock è morto. Siccome ogni promessa è debito ho deciso che glielo avrei fatto sapere scrivendolo qua, perché se un disco è una figata è bello farlo sapere anche ad altri.

Non mi fossi innamorato della loro energia dal vivo probabilmente avrei odiato a morte una cosa che di solito non mi va giù per niente: la mitizzazione del rock. Come diceva qualcuno anni fa (di sicuro i Verbena, ma potrebbero averla copiata da altri la frase) non essendo una forma di vita basata sul carbonio il rock non può essere vivo né, quindi, morire, eppure già dal titolo Davide Noseda e compagni ci tengono a seppellirlo, ad esaltarlo nella traccia d’apertura e, già che ci siamo, scagliarsi verso una delle sue forme più attuali ne La grande truffa dell’indie rock. Quel che li salva, a parte la succitata performance live, è il fatto che a) tutto ciò viene affrontato con un sacco d’ironia e b) i testi sono davvero ben scritti. Escludendo dal computo Rock’n’roll, che non vuole essere niente più di quella mitizzazione a cui accennavo prima, già la seguente Homo sapiens ha il pregio di essere tagliente ed abrasiva nelle parole quanto trascinante musicalmente, col basso distorto di Ugo Canitano a delineare atmosfere proto-stoner che esplodono quando Davide attacca a cantare a ripetizione “la distruzione la distruzione”. Ovviamente non è l’unico esempio, e che si tratti di immaginare una più romantica e malinconica storia per Chernobyl, uno dei pochi lenti del lotto, o di spiegare che il rock muore perché “ciò che è bello non è buono, ciò che è buono non è figo, ciò che è figo non è vero e ciò che è vero ci ha rotto il cazzo” (Il rock è morto) Les fleurs des maladives lo fanno bene, con una voce che convince come carisma e come metrica e, dulcis in fundo, ci mettono anche un sacco di potenza.
Se un appunto si vuol fare alla confezione sonora del disco è che la voce, per quanto piacevole, esce troppo rispetto agli strumenti, un’annotazione che mi sento di fare soprattutto in virtù di una resa sul palco ottima grazie anche ad un più azzeccato mix fra tutti gli elementi. Il peccato è veniale, sia chiaro, perché le distorsioni grezze che infestano l’album in ogni dove fanno in modo di donare una carica continua e coinvolgente: le già citate Homo sapiens e Il rock è morto sono probabilmente gli esempi migliori, ma pestano sull’acceleratore anche Attacchi di panico, La grande truffa dell’indie rock, ottima nel rendere corpose ritmicamente strofe che sarebbero sembrate paradossalmente troppo indie, e Naba design blues, che invece del rischio di sembrare indie se ne fotte e riesce comunque ad essere efficace. La corsa forsennata a cui costringono l’ascoltatore ha uno stop solo con la già citata Chernobyl e con gli ultimi due brani: Le tre verità (cover di Battisti con l’ospitata di Alteria alla voce) e la conclusiva La fine dello spettacolo (ispirata dalla tragedia del Bataclan e dedicata alle vittime) si prendono infatti più tempo, dilatano l’atmosfera nel primo caso e la rendono più varia e mutevole nel secondo, ma pur non perdendo d’energia sembrano meno coese ed efficaci dei pezzi in cui riescono ad essere diretti, senza fronzoli e, nonostante questo o forse grazie a questo, efficaci come pochi. Gemelli diversi dei lecchesi Vintage Violence, per chi li conosce ed apprezza.

Non mi rimane granché da dire se non ascoltate, ascoltate attentamente e, se potete, godeteveli dal vivo. Dal qui presente operaio della critica discografica (che, diversamente dai “giornalisti con i dischi in tasca” citati ne Il rock è morto, nella causa persa della musica sta fra gli sconfitti) è tutto. Stefano Ficagna

Tracklist: 

1. Rock'n'roll
2. Homo spaiens
3. La grande truffa dell'indie-rock
4. Attacchi di panico
5. Chernobyl
6. Naba design blues
7. La canzone del condannato
8. Il rock è morto
9. Le tre verità
10. La fine dello spettacolo

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