Grande ritorno per i giovani torinesi Eugenio in Via Di Gioia. Tutti su per terra esce per Libellula e focalizza su di sé una certa attenzione, in primis da parte dei tanti sostenitori di una delle poche band che riesce a trascinare un po' di gente ai propri concerti. Attenzione a cosa si va cercando, però. Perché il nuovo album è molto meno "simpaticone" e gioviale del precedente, e molto più filosofico e riflessivo. Anche se molto probabilmente lo spirito da giullari che dal vivo anima la band rimarrà inalterato. Ma sul disco il quartetto stavolta ha sperimentato, e anche molto, e con scelte sicuramente originali, probabilmente suggerite da chi si è occupato della produzione e cioè Fabio Rizzo (Dimartino, Niccolò Carnesi) e Marco Libanore.
La sperimentazione vira verso una strada completamente inattesa anche perché abbandonata dagli artisti italiani da almeno quindici anni: la valenza educativa e morale dei testi. Questi nuovi Eugenio in Via Di Gioia, infatti, sono un po' didascalici a volte, un po' professoroni. Penso ad esempio al brano La punta dell'iceberg, che mi ricorda (anche nella metrica) il Jovanotti dei primi anni 2000, quello dell'epoca dell'album Il quinto mondo, quando dall'alto del pulpito impartiva insegnamenti su un mondo in cambiamento e anche un po' alla deriva. E per questo era risultato antipatico a molti. Nel caso del quartetto torinese c'è da considerare anche l'aspetto anagrafico di un eloquio tra il catastrofico e il disilluso messo in bocca a dei ragazzi venticinquenni e non a qualche illustre sociologo settantenne che vediamo in televisione. E ciò potrebbe significare due cose: o che Eugenio e soci sono intelligentissimi e profondi, cosa sicuramente vera trattandosi di quattro bravissimi ragazzi davvero sopra la media di ciò che si vede in giro, o più semplicemente di una furba decisione presa a tavolino in modo da cascare in piedi una volta esaurito il bonus della simpatia. E questo aspetto mi piace già un po' meno, aggravato da altri testi un po' pesantucci quali La prima pace mondiale o Obiezione, brano che vira sul filosofico e mi ricorda ancora una volta Jovanotti. Un attimo di pazienza prima di passare ai tantissimi lati positivi, perché ci sono ancora un paio bocconi propinati da questo album che non mi vanno giù. Prima cosa: per una band che vuole proporsi insistentemente sul panorama nazionale, utilizzando come tratto distintivo tra tutti proprio la fonetica, sarebbe importante che la dizione fosse estremamente precisa e corretta. In questo album assistiamo invece ad una pronuncia veramente troppo piemontese (nel senso di sabauda) sulle vocali. E sembra un piccolo dettaglio ma, vi assicuro, è da prendere in considerazione. Seconda cosa: troppe, troppe, troppe parole. Anche se lo stile del quartetto torinese punta proprio su questo. Ma non bisogna esagerare. Alcuni concetti, anche complessi, vengono sviscerati dopo poco più di un minuto. Il resto è un gioco tirato troppo per le lunghe: Silenzio inizia a ricamare sugli stessi argomenti dopo due minuti, Sette camicie addirittura dopo soltanto un minuto e mezzo. Finite le critiche, passiamo ai lati positivi: grandissima profondità di analisi degli argomenti trattati nei due singoli Giovani illuminati e Chiodo fisso, punti di vista molto personali ma condivisibili sull'esigenza di mostrarsi senza riserve e non cadere nell'omertà (Selezione naturale, con la partecipazione del rapper torinese Willie Peyote, e Silenzio), un po' di sano e intelligente divertimento (Sette camicie) e una buona capacità di introspezione (Scivola via). I quattro torinesi hanno dalla loro parte la giovane età, la grande intelligenza, l'astuzia, la capacità di attrarre a sé il pubblico, insomma hanno almeno altri quarant'anni di palcoscenici da conquistare, perché hanno dentro di sé quel qualcosa in più, quindi le tre cazzate di critiche che ho fatto prima me le rimangio. Marco Maresca
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