9 marzo 2016

Gli anni '70 non sono mai stati così vicini con i The Chanfrughen

Gli anni '70, quelli più psichedelici e prog nello specifico, sono stati sicuramente un’influenza molto importante per i membri dei The Chanfrughen, al pari probabilmente dei cantautori che sempre in quel periodo imperversavano in Italia. Sono infatti un’impronta sonora che pesca dal passato ed i testi i tratti che spicano di più in questo Shah mat, secondo album della band ligure, composto da otto tracce che uniscono la potenza del rock ad un fascino esotico.

Proprio l’esotismo delle lande del Centroamerica emerge da Belize, prima traccia che si ascolta dopo la corposa ouverture strumentale Voodoo Belmopan, anche se le immagini del piccolo stato si mischiano con la realtà scomoda degli “evasori fiscali mentali”: un’unione ottimamente riuscita quella fra le parole di Gialuca ed il mellifluo incastro degli strumenti, con questi ultimi che si prendono la ribalta verso la fine del brano in una lunga parentesi strumentale quasi da manuale del genere. Una concessione alle regole base del prog questa che permea quasi l’intero disco, e seppure mai veramente fuori luogo sa un po’ di stucchevole, particolarmente quando il brano già di per sè stenta a decollare: è il caso di Parassiti, dove i ritornelli non riescono a dare la carica e l’accelerazione strumentale a metà brano sembra più un momento di sfogo che un  proseguio adeguato all’andazzo seguito fin lì. Meglio, molto meglio va con Rum, spezie, sciac tra, dove al ritmo blues trascinante delle strofe segue un azzeccatissimo rallentamento nei ritornelli, dove le parole aiutano ancora a dare una spinta in più (“Noi che abbiamo la stessa consistenza di un cerino brilliamo di rado”)...e amen se il finale è affidato ancora ad un lungo outro strumentale, perché stavolta non si esce troppo dal seminato.
Si parlava di esotismo, ed è sicuramente la traccia che dà il tiolo al disco, Shah mat, a rappresentare il punto più alto di questa influenza. Vuoi per il sitar o vuoi per il testo ma la traccia riesce a far veramente viaggiare momentaneamente nell’Asia Minore, anche se il ritornello lascia qualche perplessità di metrica vocale. T.S.O. mostra invece il lato rock più lineare e senza fronzoli, che sfocia poi nella seguente Delle fave in un finale simil-Sabbathiano. Limonov, traccia con cui si conclude il disco, fa alzare un po’ il sopracciglio per un mix generale mal amalgamato col resto dei brani, ma riesce a recuparare parzialmente con l’ennesima cavalcata strumentale che, ancor più che nel brano precedente, lascia piacevoli sensazioni di graniticità proto-stoner.

Indecisi se cavalcare in pieno l’onda del prog psichedelico o se distaccarsene con soluzioni più personali i The Chanfrughen trovano una piacevole via di mezzo, debitrice dei maestri (soprattutto nelle lunghe e sempre presenti digressioni strumentali) ma con sprazzi di buona individualità che emergono soprattutto da testi ben costruiti e mai banali. Un tuffo in un passato mai così vicino insomma, buona la seconda! Stefano Ficagna

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