16 ottobre 2015

David Ragghianti, esordio sotto l'ala di Giuliano Dottori

Portland, la piccola Beirut degli anni 80, o almeno così la dipinge Chuck Palahniuk nel suo piccolo vademecum della città nordamericana intitolato Portland Souvenir. Sono atmosfere ben distanti quelle che dipingono lo scrittore statunitense ed il cantautore italiano David Ragghianti, visto che quest’ultimo intesse col suo esordio discografico una poetica cantautorale che trova in Giuliano Dottori (ex Amour Fou) un nume tutelare di tutto rispetto. Un disco sicuramente interessante, venato di tante sfumature diverse, e che richiede un approfondimento sia dal punto di vista musicale che da quello dei testi.

La musica. La varietà è sicuramente uno dei punti di forza dell’album. Le nove tracce del disco svariano fra il rock morbido dell’iniziale I prati che cercavo e quello venato di folk di Dove conduci e Occhi asciutti, tracce che lasciano intravedere le grandi pianure più che i boschi dell’Oregon. Grande spazio è lasciato a brani scarni e piacevolmente semplici, dove la chitarra acustica coadiuvata dal mandolino e dagli archi crea la romantica atmosfera di Pause estive, e da sola con la voce chiude il disco col raffinato arpeggio di Raffiche di fuga, ed è quasi strano che altrettanto spazio lo trovino curiosi esperimenti in levare, che passano dal sapore caraibico di Amsterdam e Se non ti ammali mai a quello più pop di 300 anni. Esattamente nel mezzo il primo singolo Tema del filo, una canzone in cui la vena cantautorale più sofferta vien fuori nella forma di un brano intimistico e malinconico. Nessuna di queste anime stona nell’economia del disco, ma si sente soprattutto nelle tracce più lievi una mancanza di approfondimento, come se le canzoni si dispiegassero da sè senza bisogno di ulteriori attenzioni: particolarmente riuscita invece la progressiva crescita emozionale di Occhi asciutti e Tema del filo.
La voce. Merita una parte a sè stante, vista l’importanza che riveste in un disco dalla marcata impronta cantautorale. David ha un tono pacato, capace di lievi impennate quando necessario, ma non sempre riesce a veicolare efficacemente i brani. Ottimo nella prova sofferta di Tema del filo (probabilmente il brano migliore del lotto), efficace nella calma con cui si adagia sulle rade note di Raffiche di fuga o, al contrario, nel modo in cui si erge protagonista man mano che si alza l’intensità di Occhi asciutti, meno convincente nel sottolineare il romanticismo intrinseco di Pause estive (ma viene in suo soccorso una calda voce femminile), ciò che in realtà piaga questo importante lato dell’album è il modo in cui David si prende libertà metriche che stonano nel risultato generale. Il modo in cui finisce le strofe di 300 anni, alcune parti poco coese della prima metà di I prati che cercavo, i ritornelli dalla melodia ondivaga di Pause estive o, nella stessa canzone, il modo in cui si rincorre all’inizio della seconda strofa: qualcosa della poesia creata dai brani si perde in queste che sono sì sfumature, ma molto importanti nell’economia di un disco che su voce e parole poggia molta della sua valenza, anche se va detto che il modo in cui cadenza il ritornello di Dove conduci è assolutamente pregevole.
I testi. La poetica dei brani si regge su immagini bucoliche e spesso criptiche, con frasi che evocano a volte paesaggi fiabeschi e naturali (la Trilli citata in Amsterdam, i girotondi di nespole e la fedeltà alla terra de I prati che cercavo, le cime tempestose ed i semi sparsi di Se non ti ammali mai)  ed in altre approfondiscono delicatamente l’amore (“che bell’inganno quella carne che mi dai/ e la mia fame che non arriva prima/ se avessi ancora tempo forse ti direi/ io non avevo mai pensato che/ fosse possibile vivere senza te”, recita nell’ispirata Dove conduci). Il quadro generale è sicuramente personale, anche se a volte si ha l’impressione che le frasi si uniscano più per assonanza di figure che non alla ricerca di un senso compiuto all’interno del brano, ma quello che rischia di rompere il gioco è la presenza di sbavature inaspettate, frasi che tolgono la poesia laddove si era creata un’atmosfera interessante: se a chiudere una frase come “s’addensa ad un sapore pieno/ per farsi duplice si rappresenta/ c’è un mondo immaginato ed uno di maiuscole/ un frutto gigantesco” arriva un poco ispirato “dove ci stanno i ritorni” vien da storcere il naso, e qua e là sembra che a David manchino all’improvviso le parole giuste per legittimare la valenza del testo in generale, come quando nel lungo ed etereo ritornello di Pause estive arriva un banale “niente di personale a dirsi adesso no”. Va però fatto un plauso laddove pesca perle brillanti come “chi ha visto il dietro dei ristoranti sa ricordarsi di com’è dura” (Raffiche di fuga), “non è che spargi semi solo se cresceranno” (Se non ti ammali mai), “togli gli occhi asciutti a chi non ha dubbi” (Occhi asciutti). Efficaci, insomma, ma anch’essi altalenanti nella loro qualità.
Che dire quindi in conclusione di questo Portland? Non che sia un album completamente riuscito, questo no, ma è abbastanza per portare alla luce un talento che ha bisogno di focalizzarsi maggiormente su tutti gli aspetti della propria arte, cercando piuttosto di dire meno ma di dirlo con la stessa ispirazione e le stesse parole dei momenti migliori, che di sicuro non mancano. Stefano Ficagna

Tracklist:

1. I prati che cercavo
2. Amsterdam
3. Dove conduci
4. Occhi asciutti
5. Tema del filo
6. Se non ti ammali mai
7. Pause estive
8. 300 anni
9. Raffiche di fuga

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