Portland, la piccola Beirut degli
anni 80, o almeno così la dipinge Chuck Palahniuk nel suo piccolo vademecum
della città nordamericana intitolato Portland Souvenir. Sono atmosfere ben
distanti quelle che dipingono lo scrittore statunitense ed il cantautore
italiano David Ragghianti, visto che quest’ultimo intesse col suo esordio
discografico una poetica cantautorale che trova in Giuliano Dottori (ex Amour
Fou) un nume tutelare di tutto rispetto. Un disco sicuramente interessante,
venato di tante sfumature diverse, e che richiede un approfondimento sia dal
punto di vista musicale che da quello dei testi.
La musica. La varietà è sicuramente uno dei punti di forza
dell’album. Le nove tracce del disco svariano fra il rock morbido dell’iniziale
I prati che cercavo e quello venato
di folk di Dove conduci e Occhi asciutti, tracce che lasciano
intravedere le grandi pianure più che i boschi dell’Oregon. Grande spazio è
lasciato a brani scarni e piacevolmente semplici, dove la chitarra acustica
coadiuvata dal mandolino e dagli archi crea la romantica atmosfera di Pause estive, e da sola con la voce
chiude il disco col raffinato arpeggio di Raffiche
di fuga, ed è quasi strano che altrettanto spazio lo trovino curiosi
esperimenti in levare, che passano dal sapore caraibico di Amsterdam e Se non ti ammali
mai a quello più pop di 300 anni. Esattamente nel mezzo il primo
singolo Tema del filo, una canzone in
cui la vena cantautorale più sofferta vien fuori nella forma di un brano
intimistico e malinconico. Nessuna di queste anime stona nell’economia del
disco, ma si sente soprattutto nelle tracce più lievi una mancanza di
approfondimento, come se le canzoni si dispiegassero da sè senza bisogno di
ulteriori attenzioni: particolarmente riuscita invece la progressiva crescita
emozionale di Occhi asciutti e Tema del filo.
La voce. Merita una parte a sè stante, vista l’importanza che
riveste in un disco dalla marcata impronta cantautorale. David ha un tono
pacato, capace di lievi impennate quando necessario, ma non sempre riesce a
veicolare efficacemente i brani. Ottimo nella prova sofferta di Tema del filo (probabilmente il brano
migliore del lotto), efficace nella calma con cui si adagia sulle rade note di Raffiche di fuga o, al contrario, nel
modo in cui si erge protagonista man mano che si alza l’intensità di Occhi asciutti, meno convincente nel
sottolineare il romanticismo intrinseco di Pause
estive (ma viene in suo soccorso una calda voce femminile), ciò che in
realtà piaga questo importante lato dell’album è il modo in cui David si prende
libertà metriche che stonano nel risultato generale. Il modo in cui finisce le
strofe di 300 anni, alcune parti poco
coese della prima metà di I prati che
cercavo, i ritornelli dalla melodia ondivaga di Pause estive o, nella stessa canzone, il modo in cui si rincorre
all’inizio della seconda strofa: qualcosa della poesia creata dai brani si
perde in queste che sono sì sfumature, ma molto importanti nell’economia di un
disco che su voce e parole poggia molta della sua valenza, anche se va detto
che il modo in cui cadenza il ritornello di Dove
conduci è assolutamente pregevole.
I testi. La poetica dei brani si regge su immagini bucoliche e
spesso criptiche, con frasi che evocano a volte paesaggi fiabeschi e naturali
(la Trilli citata in Amsterdam, i girotondi
di nespole e la fedeltà alla terra de I
prati che cercavo, le cime tempestose ed i semi sparsi di Se non ti ammali mai) ed in altre approfondiscono delicatamente l’amore
(“che bell’inganno quella carne che mi dai/ e la mia fame che non arriva prima/
se avessi ancora tempo forse ti direi/ io non avevo mai pensato che/ fosse
possibile vivere senza te”, recita nell’ispirata Dove conduci). Il quadro generale è sicuramente personale, anche se
a volte si ha l’impressione che le frasi si uniscano più per assonanza di
figure che non alla ricerca di un senso compiuto all’interno del brano, ma
quello che rischia di rompere il gioco è la presenza di sbavature inaspettate,
frasi che tolgono la poesia laddove si era creata un’atmosfera interessante: se
a chiudere una frase come “s’addensa ad un sapore pieno/ per farsi duplice si
rappresenta/ c’è un mondo immaginato ed uno di maiuscole/ un frutto gigantesco”
arriva un poco ispirato “dove ci stanno i ritorni” vien da storcere il naso, e
qua e là sembra che a David manchino all’improvviso le parole giuste per
legittimare la valenza del testo in generale, come quando nel lungo ed etereo
ritornello di Pause estive arriva un banale
“niente di personale a dirsi adesso no”. Va però fatto un plauso laddove pesca
perle brillanti come “chi ha visto il dietro dei ristoranti sa ricordarsi di
com’è dura” (Raffiche di fuga), “non
è che spargi semi solo se cresceranno” (Se
non ti ammali mai), “togli gli occhi asciutti a chi non ha dubbi” (Occhi asciutti). Efficaci, insomma, ma
anch’essi altalenanti nella loro qualità.
Che dire quindi in conclusione di
questo Portland? Non che sia un album completamente riuscito, questo no, ma è
abbastanza per portare alla luce un talento che ha bisogno di focalizzarsi
maggiormente su tutti gli aspetti della propria arte, cercando piuttosto di
dire meno ma di dirlo con la stessa ispirazione e le stesse parole dei momenti
migliori, che di sicuro non mancano. Stefano
Ficagna
Tracklist:
1. I prati che cercavo
2. Amsterdam
3. Dove conduci
4. Occhi asciutti
5. Tema del filo
6. Se non ti ammali mai
7. Pause estive
8. 300 anni
9. Raffiche di fuga
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