27 aprile 2015

Nothing but the wind, il sogno americano dei monzesi The Comet

Che i monzesi The Comet si siano cibati al cospetto di un immaginario a stelle e strisce lo si intuisce già dalla cover del loro esordio sulla lunga distanza Nothing but the wind, adattissimo ad un tatuaggio (ed è proprio di un tatuatore la mano che l'ha disegnata). E' la musica però a darne maggiore prova, una musica che lungo nove brani affonda le sue radici in suggestioni che rimandano agli spazi aperti del sud-ovest statunitense, mescolando al rock una robusta dose di psichedelia che si avverte soprattutto nelle frequenti dilatazioni sonore dei brani.

La grinta non manca certo agli strumenti, con le chitarre in bella evidenza a protrarsi in continui fraseggi e in robuste dosi di feedback, e sebbene ci sia spazio per momenti più morbidi come nell'influenza spiccatamente southern rock di Faded roses (azzeccata l'idea di inserire nell'intro l'armonica) o più dilatati, con sugli scudi una Vanity che pecca solo di ritornelli poco incisivi (mi ha colpito meno Spirit, nonostante la sua monumentale progressione psichedelica), è nei ritmi serrati di cui danno sfoggio già nella prima traccia Secret love che i The Comet trovano la loro cifra stilistica prediletta. Aiutati dalla voce calda e rude di Matteo Pauri (assente solo nella strumentale Bad water, interessante soprattutto nei suoi rallentamenti ariosi) i brani scorrono via piacevolmente, lasciando però poche vere emozioni. Il problema è che nella eccessiva dilatazione dei tempi, necessaria a far sfogare le già citate chitarre, si finisce anche per ripetere in maniera eccessiva strutture che risultano meno elaborate di quanto non lo siano invece gli incastri fra gli strumenti: si finisce così per sprecare anche il potenziale di brani che si reggono su ottimi riff come nella potente Whisper, che nella sua durata pur breve rispetto alla media rischia di stancare ben prima della lunga coda strumentale.

Una prova comunque degna di merito quella della band monzese, orgogliosa di ostentare il suo legame con una psichedelia meno lisergica di altri esempi venuti negli anni (i miei trip migliori li ho fatti nei territori desertici dei Kyuss, ma è semplice questione di gusti) tanto da chiudere il disco con una cover di Dancing barefoot di una certa Patti Smith. Una concisione maggiore dei brani li avrebbe sminuiti, forse il passo successivo migliore sarebbe quello di andare ancora più oltre, amalgamando all'ariosità dei suoni strutture più libere da schemi che non le lasciano volare in alto come meriterebbero. Stefano Ficagna

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