2 settembre 2013

Fuori tema - La testimonianza di un 22enne novarese nei Territori palestinesi con un'organizzazione per i diritti umani VIDEO

Questa è l’esperienza di Taylor (lo pseudonimo utilizzato da Claudio, un ragazzo di 22 anni di Novara) che da pochi giorni è tornato da un’esperienza di attivismo in Palestina con l’ “International solidarity movement” (Ism) un’organizzazione che si spende a favore dei diritti umani in quel territorio. Un’esperienza particolarmente “forte” e pericolosa «che ho voluto fare per toccare con mano qual è la situazione palestinese e l’oppressione alle libertà fondamentali che Israele sta perpetrando».
Come sei venuto a conoscenza dell’attività dell’Ism? «Mi sono avvicinato recentemente ai temi di politica estera e alla questione palestinese approfondendola negli studi e quindi conoscendo l’attività dell’attivista Vittorio Arrigoni che è stato ucciso in circostanze ancora da chiarire nella Striscia di Gaza. Mi sono, quindi, interessato all’attività dell’Ism, di cui faceva parte, e ho contattato alcuni membri partecipando ad un momento di formazione a Milano. Ho quindi deciso di partire per Israele, da solo, nel mese di luglio».
Con che intenti sei arrivato in Israele? «L’obiettivo dell’organizzazione è, in primo luogo, raccontare e documentare l’occupazione isaeliana della Palestina e fungere da deterrente agli attacchi da parte di soldati o dei coloni (che paradossalmente sono più pericolosi dei soldati stessi). La mia esperienza si è svolta fra le città di Nablus e Hebron: Nablus è una tipica città araba della Cisgiordania a 60 chilometri a nord di Gerusalemme, attualmente  su “area A”, ossia è ad amministrazione palestinese; nonostante ciò, sulle due montagne che la circondano, Ebal e Garizim, ci sono due basi militari israeliane».

Nella quotidianità hai percepito realmente l’odio tra i popoli di cui arriva eco in occidente? «In Israele ho immediatamente notato una forte militarizzazione che aumentava man mano che ci si avvicinava ai territori palestinesi. Si avvertiva una forte preoccupazione anche nei confronti degli europei: attivisti e giornalisti sono considerati “un pericolo” perché rappresentano in un certo senso una “garanzia” per il diritto dei palestinesi. Tra la popolazione civile, tuttavia, non ho notato un’ostilità manifesta, quanto dettata da una propaganda culturale».
Perché è così importante documentare l’attività di soldati e coloni palestinesi? «In primo luogo per promuovere una presa di coscienza in Occidente, in seconda battuta perché questa attività talvolta serve da deterrente per l’azione dei militari. I filmati parlano da soli…
Ad esempio, nei primi giorni di agosto, a Hebron ero con altri attivisti (un italiano e due danesi) abbiamo notiamo un gruppo di otto soldati che si aggirava per la parte palestinese della città. Era notte e chiunque incontrassero veniva messo faccia al muro e perquisito con qualsiasi pretesto. Quando hanno notato che li stavamo riprendendo (normalmente la legge vieta di riprendere i militari, ndr), hanno a loro volta iniziato a filmarci con l’intento di documentare la violazione e utilizzarla come pretesto per impedire un successivo soggiorno a Israele. Abbiamo quindi domandato loro il perché delle perquisizioni, e nonostante non ci siano state date risposte esaustive, dopo poco i militari hanno deciso di andarsene. Questo è solo un esempio di tante situazioni quotidiane che si verificano nei territori dove i Palestinesi dovrebbero invece vivere senza alcuna occupazione o presenza militare».
Un’altra situazione emblematica, di cui mi hai parlato, è quella degli scontri durante le manifestazioni di protesta da parte dei palestinesi. Come mai avvengono così sistematicamente? «I palestinesi continuano a portare avanti una resistenza ed un desiderio di autodeterminazione molto forti, quindi periodicamente organizzano delle manifestazioni contro l’occupazione dei Territori che seguono sempre un copione predeterminato: il corteo dei palestinesi viene puntualmente fermato dalla presenza dei soldati, che finiscono con il disperdere la folla con l’uso delle armi e della forza. Partecipando ad un corteo a Kafr Qaddum, una cittadina dalle parti di Nablus, i soldati israeliani hanno ad un certo punto iniziato a sparare lacrimogeni e proiettili di gomma sulla folla (al training mi avevano dato precise indicazioni su come comportarmi anche in questi casi) che ha iniziato a disperdersi. I ragazzi palestinesi hanno risposto con il lancio di pietre, reazione più simbolica che concreta. I soldati hanno quindi cercato di arrestare il maggior numero di manifestanti in fuga. Noi, come loro, ci siamo rifugiati in una casa palestinese, con gli occhi che ci bruciano e la fatica di respirare per via dei gas lacrimogeni».
Da osservatore occidentale, come credi possa evolversi la situazione pelestinese?«Purtroppo credo che la situazione non possa che peggiorare. Pur non essendo in presenza di un conflitto, l’occupazione militare rappresenta ormai una normalizzazione quotidiana. Israele non si sente toccato in alcun modo dall’opinione pubblica e dalla blanda pressione internazionale e anno dopo anno tende a “erodere spazio” attraverso l’occupazione militare. E questo l’aspetto più agghiacciante dell’apartheid messo in piedi da Israele».
Roberto Conti


Una delle manifestazione documentate a Kafr Qaddum

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