I Black Friday sanno il fatto loro. Basterebbe dire che la band è formata da soli due elementi ma che ciò che esce dalle casse travolge come un'onda anomala. O forse è sufficiente sapere che l'unico strumento che utilizzano è una chitarra acustica. Per la precisione, a utilizzarlo, quello strumento, è Adriano Viterbini, le cui capacità tecniche e il cui stile sopra le righe sono già noti ai seguaci dei Bud Spencer Blues Explosion, che personalmente ho avuto il piacere di ascoltare al Balla coi cinghiali 2010.
Li abbiamo ascoltati all'Arterìa di Bologna lo scorso 26 gennaio. Pochi minuti dopo la performance degli Spacca il silenzio, un cantautorato gentile e coinvolgente con cambi di intensità repentini, salgono sul palco il già citato chitarrista e Luca Sapio, voce dei Quintorigo. Le idee del power duo appaiono immediatamente molto chiare: il suono metallico delle sei corde accarezzate con vigore dal bottleneck di vetro indossato dal mignolo destro di Adriano e la voce rauca ma poderosa, un po' Ben Harper un po' Tom Waits, di Luca, evocano i fantasmi di leggende del blues. Ed ecco sfilare davanti a noi mostri sacri come Robert Johnson, Sam Cooke, James Carr, Charlie Patton, Son House, Blind Willie Johnson, reinterpretati nei loro brani storici con evidente devozione e rispetto, quasi con perizia filologica per quello che riguarda il suono e l'approccio, ma con elementi stilistici molto peculiari, soprattutto nell'uso della chitarra. Adriano infatti massacra le corde del suo strumento percuotendole e strappandole, facendolo urlare di un dolore e di una passione che sembrano appartenere al musicista stesso: le sue smorfie e il piede sinistro sbattuto con forza sul legno del palco sono solo ulteriori conferme del demonio che sembra possederlo. L'assenza di una base ritmica convenzionale non si fa per nulla sentire, anzi, difficilmente l'aggiunta di altri strumenti lascerebbe una tale libertà di espressione all'autarchico Bud Spencer's boy, tanto più che il tratto caratteristico del suo stile sono le frequenti variazioni ritmiche, sincopi, terzinati, controtempo, spesso veri e propri virtuosismi entusiasmanti che si ricongiungono ai canali del ritmo di base con perfetta sincronia. Tra le numerose cover di pezzi storici si inserisce di tanto in tanto un brano originale, che non tradisce l'impostazione scelta dal gruppo e si inserisce con coraggio tra pilastri del genere come John the revelator o A change is gonna come.
Dopo una decina di brani Luca fa partire una base di musica indiana e inizia a mostrare le sue capacità vocali, frutto evidente di approfonditi studi, simulando il suono di un didgeridoo, cantando su scale tipiche della musica indù e modulando la voce con rapidi movimenti della gola, come in una sorta di jodel. L'esibizione del cantante, forse un po' fine a se stessa, sfocia in uno spiritual che invoca il Signore in una preghiera appassionata. Il pezzo che segue raggiunge il climax del concerto: a un giro ipnotico di chitarra, interrotta di rado da rapidi turnover, si sovrappongono grida potenti e prolungate. Luca ha già salutato il pubblico, ma tutti si aspettano che suonino ancora qualche canzone, come da prassi, mentre il cantante scherza dichiarando che è la prima volta che concedono il bis. Parte una ballad struggente, che purtroppo subisce l'affronto immeritato del chiacchiericcio del pubblico probabilmente stanco. Il concerto si chiude col tono con cui era cominciato: un classico come Death letter blues è un arrivederci perfetto da parte dei due ragazzi che danno del tu al delta del Mississippi. Luca Manni
forza blues
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