17 ottobre 2014

Riviera, il primo full-lenght dei Riviera

Obiettività, gusto e chiarezza: ecco i tre principi fondamentali per una giusta analisi critica dell’opera. Barthes non ha certo avuto l’occasione di ascoltare l’ultimo dei Riviera, io sì. E ne vorrei parlare con la giusta non-neutralità. Sì perché il primo full lenght (dal titolo omonimo) dei romagnoli, in uscita per un potentissimo amalgama di etichette italiane e non, non può essere affrontato a cuor leggero. 
È cultura, amici. Intesa come la intendeva Truffaut, cioè una corazzata di avvenimenti che arricchiscono l’animo. Avvenimenti quali la lettura di un libro, la visione di un film, la stesura di un progetto o l’incisione (nel vero senso materiale del termine) di un disco. Soffermiamoci sull’ultimo elemento.  Undici canzoni che partono senza mai più tornare indietro, che offrono ben più che banali spunti di riflessione. Innanzitutto per come sono strutturate: le diverse parti rientrano, si affusolano, si affezionano ad altre parti che non verranno più suonate, si incantano, partono rabbiose e annichiliscono. O meglio, catturano morbosamente l’attenzione.  Prendiamo come esempio Camminare sui muri. Si parte con tutto ciò che si deve sapere ma la destinazione rimane ignota sino al rivelatore coro finale. Ci si perde, anche se “quelli che ricordano di ogni momento,
son quelli che fan finta di sapere tutto”. Tuffo bomba mi ricorda una di quelle cose vecchie che adoravano fare che so, i Page99.  Tutti insieme a stringersi, per poi esaltarci con un giro punk rock che più punk rock di così si muore. La successiva Calanchi  non è nient’altro che un intermezzo di miele e falò, giusto per riprendere fiato prima di un altro, inesorabile giro punk rock, sparato ad altezza spalle questa volta da Pioggia di forchette, una canzone che trascina le parole in modo violento ed inadeguato. I segnali trasmessi da “Riviera” sono festosi, coerenti e vividi.

Tutto ciò con coscienza, ovviamente; una coscienza che non ci viene data né dalla società in cui viviamo né dalla nostra volontà. Ed ho volutamente omesso il verbo.  È infatti una coscienza che non conosce diritti e che ci fa ancora mimare accordi e saltare in camera come vent’anni fa. “Non mi è bastato un attimo,
di mille zaini io credo che,  siam diventati grandi,  ma è sempre poco il tempo.” impazza Attrezzi, della quale non scorderò mai la parte finale. È cultura, d’altronde. Andrea Vecchio

Nessun commento:

Posta un commento