5 marzo 2015

Gli Obstinate sermons del "reverendo" Johnny Mox

Di Johnny Mox ne sento parlare da un bel po'. Me ne avevano parlato i Gazebo penguins, che non per niente lo accompagnano come band di supporto ed il cui bassista Andrea Sologni è anche produttore del disco in questione, ed il suo nome è uscito fuori, anche se in realtà più per questioni di cover del disco, anche con i compagni di etichetta Valerian swing. Insomma era destino che prima o poi le strade mie e del reverendo si incrociassero in qualche maniera, e quando ho visto solo soletto il suo disco fra quelli da recensire non ci ho pensato due volte ad accaparrarmelo. E non me ne sono pentito.

Il più grande pregio di Obstinate sermons (uscito per l'etichetta To lose la track) è la canzone con cui inizia, l'apocalittica They told me to have faith and all I got was the sacred dirt of my empty hands: inizia con un allarme da fine del mondo, su cui entra dopo poco un appassionato e fervente discorso condito da battiti di mani che fanno tanto gospel con sottofondo di voci che continuano a proclamare “more power”... e la potenza arriva, stordente quanto improvvisa, fra schitarrate paurose e qualcosa che sembra un kazoo impazzito a fargli compagnia, mentre Johnny (al secolo Gianluca Taraborelli) ci dà dentro con la voce a mimare la batteria in una prova di beatbox da applausi. Il più grande difetto del disco? Nulla, di quanto arriva dopo, riesce ad avvicinarsi a tanta magnificenza. Il che non significa, sia ben chiaro, che il disco smetta di offrire spunti interessanti: dalle prove influenzate dal post hardcore di Praise the stubborn e, in misura più acustica, di O' brother e The winners (altre grandi prove di beatbox, con la seconda che nel testo echeggia di Mudhoney d'annata col suo inno “we can never be winner if we got something to lose/ we can only be winner if we got nothing to lose”), convincenti fino ad un certo punto, alle atmosfere più plumbee e scarne di Ex teachers (capace comunque di esplodere d'energia nel finale) e, soprattutto, The long drape, blues lento ed inesorabile che riporta alla mente il primo Samuel Katarro (o Nick Cave se vogliamo fare esempi più altolocati) ed a cui un beatboxing finale caotico e poco azzeccato  non toglie comunque quasi niente del fascino oscuro che suscita. Il finale con King Malik è poi un tripudio di psichedelia, a cui dà una mano il sitar di Alessandro De Zan degli In Zaire, e che esplode nel finale in una sorta di protostoner allucinato da applausi prima di lasciare spazio ad un coro conclusivo che fa tanto mantra.

Che dire d'altro? La formula fuori di testa eppure incredibilmente azzeccata di Johnny Mox sta tutta qua, in un mix originalissimo di suggestioni gospel, derive distorte (sono Mirko Marconi alle chitarre ed il già citato Andrea Sologni al basso a dargli manforte) e punte di blues e psichedelia qua e là. La ripetitività di alcuni passaggi fa perdere un po' di mordente, nei brani più distorti in particolare, ma la qualità rimane comunque abbastanza alta da non farmene volere al buon reverendo se non è riuscito a mantenere la qualità del disco alta quanto la traccia iniziale: chiuderlo con la magniloquenza di King Malik è già un ottimo modo di espiare una colpa risibile. Stefano Ficagna

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