30 ottobre 2004

Il rock dei Ratoblanco "crea scompiglio"

Capita di partire per fare un'intervista e trovarsi lì a snocciolare le domande e appuntare le risposte in modo automatico. Capita altre volte di finire a chiacchierare, consumando tutto il tempo a disposizione, senza che ne resti neanche un po' per quello che, da brava inviata, ti eri proposta di chiedere. In questo caso quello che ti resta è materiale più difficile da ordinare, ma sicuramente più gratificante.Marco Mezzetti ha 36 anni e ne ha dedicati un bel po' ai Ratoblanco, la band toscana con cui suona, canta e per la quale scrive canzoni che meritano di essere ascoltate. Non sono brava a mettere etichette e trovare definizioni, quindi non mi sforzerò per descrivere con due parole cosa e come suonano i Ratoblanco.Dirò solamente che nei loro lavori e ancora di più nelle loro esibizioni dal vivo si sentono una freschezza e una gioia di fare musica per le quali non si può che provare rispetto. Tecnicamente perfettibili (come chiunque altro), concentrati e appassionati nelle loro performance, i Ratoblanco passano da momenti punk a tenere ballate, da testi naif a immagini teneramente evocative. Marco ne è quasi sempre l'autore e non posso che essere curiosa, anzi entusiasta, di conoscerlo.

Siamo d'accordo di incontrarci per pranzo: oggetto, tra l'altro, il nuovo lavoro del gruppo (dal titolo programmatico) Crea scompiglio edito dalla Sonar/Audioglobe; arrivo qualche minuto prima di lui e mentre lo aspetto, sotto il sole, penso che è il 21 di settembre e non ho mai capito se è l'ultimo giorno d'estate o il primo d'autunno, e non so quale delle due ipotesi metta più malinconia…Ci sediamo di fronte a un vassoio di pomodoro, mozzarella, prosciutto e una bottiglia di acqua gasata. Non voglio partire subito con l'intervista, voglio prima farmi un'idea della persona che ho di fronte. Altrimenti (e questo gliel'ho detto) tanto valeva che gli spedissi le domande per posta elettronica. Mi congratulo con lui per il disco, gli confesso che mi piace molto, anche se non è sempre stato così. "Me lo hanno detto in molti," commenta lui, "sembra proprio che siano necessari diversi ascolti per farsi piacere Crea Scompiglio, e pensare che temevano di aver fatto un disco troppo semplice, troppo ascoltabile. "È proprio questo il punto, confermo io (rischiando di passare un po' da snob): ci si potrebbe "scoraggiare" dopo i primissimi ascolti, non tanto perché l'album sembri troppo complesso, al contrario perché si può pensare che ci abbia già detto tutto quello che aveva da dire, sia nella musica che nei testi. Invece no. Ci sono sfumature, rifiniture, dettagli che non si colgono da subito, ma che vale la pena di scoprire. Come è bello scoprire, quasi per caso, che Marco Mezzetti è un estimatore dei Pearl Jam; i suoi album preferiti sono No Code (il disco con cui il gruppo si è definitivamente sganciato dalle origini e ha trovato una sua strada, una sua originalità) e Versus (contiene i pezzi più belli, anche se le ballate sono un po' noiose…- ...questa è pesante, ma te la concedo, va'…). Gli piace il modo in cui Vedder e compagni scelgono ed eseguono le cover, non sono mai scontate o scopiazzate.Fa autocritica su alcune delle sue canzoni, anche con ironia, storcendo il naso per alcuni passaggi meno riusciti o per frammenti di testi non all'altezza di altri. "Scrivere in inglese è sicuramente più semplice, anche perché nei paesi anglosassoni la critica non ti spara addosso se quello che dici non è abbastanza cervellotico o alternativo.
Da noi, quando un gruppo evolve verso un linguaggio più comprensibile si dice che ha tradito. È successo così a moltissime band italiane, che magari hanno trovato poi il successo del pubblico ma sono state attaccate dalla critica e dai loro primi fan. Nei paesi anglofoni "pop" è un genere, non una denigrazione. Da noi no. Eppure, prendi un gruppo come gli Strokes, acclamati dalla nostra critica, traduci i loro testi e guarda che effetto fa. Chi potrebbe cantarli, in italiano? Nessuno meglio delle Vibrazioni, che però suscitano tutt'altri commenti…
I testi di questi gruppi sono semplicissimi, come lo erano le liriche di Elvis e di tutto il primo rock: mi piace una ragazza, ha gli occhi belli, passo a prenderla con la mia macchina, usciamo a fare un giro... da noi se uno scrive una canzone così viene coperto di ridicolo. Forse è per via anche dell'influenza dei cantautori, che si fa ancora sentire e per la quale "quella" e solo quella è la bella musica, in Italia. Il testo, in altri paesi, è assolutamente secondario, quasi nessuno ci fa caso. Da noi no".Da appassionata di scrittura musicale e semiotica del testo, questa parte non può che appassionarmi. Ma com'è scrivere canzoni? Si riesce a essere soddisfatti e ad avere la certezza, o la concreta speranza, di aver saputo trasmettere quello che ci stava a cuore o che avevamo nella testa? I rischi sono sempre i due estremi, dire troppo poco o troppo. In entrambi i casi, il testo "non funziona". "Quando lavoro sui testi mi accorgo quanto sia difficile la sintesi" commenta Marco, e riflettiamo insieme come le canzoni più belle siano spesso brevi, compiute nella loro sobrietà da sembrare perfette come una linea rotonda tracciata a mano che si chiude nel punto dove era iniziata formando un cerchio esatto.Restando sui testi, personalmente trovo che i Ratoblanco diano il meglio quando si sganciano dalla politica e dall'attualità.
Soprattutto in Crea Scompiglio, pur essendo innegabile la forza di brani di "protesta" (come Non li sopporto più, dedicata all'ipocrisia della realtà politico-sociale locale, o La Libertà (inno all'indipendenza e al tempo stesso denuncia delle contraddizioni del mondo occidentale), le punte più alte sono toccate da brani come Luna Piena (che ricorda il De Gregori di Bellamore), Penso a Te (pochi versi ripetuti come un mantra d'amore e chiusi da un coro che sembra una ninna nanna africana). Musicalmente non si può forse fare la stessa affermazione, e da questo punto di vista i brani più "agitati" sono sicuramente convincenti.Ma la composizione non è forse la parte più complessa di quell'impresa che è la realizzazione di un album. "È difficilissimo autoprodursi (come abbiamo praticamente fatto per Crea Scompiglio) e riuscire a ottenere un suono pulito come quello che abbiamo raggiunto, anche la qualità degli arrangiamenti è sopra la media. Un merito è stato anche dello studio dove abbiamo registrato, che si trova sulla Cassia, appena fuori Siena. Un posto dove abbiamo lavorato bene e dove vorremmo lavorare anche in futuro. Da un lato, forse, sarebbe più facile andare lontano, staccare da tutto e da tutti per una settimana e stare in studio a giornate intere. Così però avevamo il vantaggio di poter uscire dal lavoro, o concludere i nostri impegni quotidiani e scappare a registrare, a qualunque ora." Già, perché i Ratoblanco fanno tutti altre cose, chi studia e chi lavora. "La musica come professione non mi è mai sembrato un obiettivo raggiungibile, realistico. Sono pochissimi quelli che ce la fanno. Credo che non mi si presenterà mai la decisione di scegliere tra lavorare e fare il musicista professionista" (e lo dice con un sorriso sincero più che con rassegnazione).E' indubbio che nello scrivere canzoni uno non porti solo il suo istinto o le sue sensazioni, ma anche tutto il bagaglio della propria formazione musicale, di ore e ore di ascolto. "Sono cresciuto con gli U2, gli Smiths, i Clash. Le band che più ti segnano sono quelle che segui nell'adolescenza e nella prima gioventù. Forse per questo la scena di Seattle mi ha affascinato poco, perché quando è esplosa ero già grandicello e non mi sono fatto trascinare da nessuna di quelle band, ad eccezione dei Pearl Jam che stimo e che ascolto. Mi piace sentire in Eddie Vedder l'influenza dei Ramones, degli Who, è così chiara, autentica. Lui riesce a fare "sue" quelle canzoni, non fa il verso a nessuno."E con le cover si cimentano anche i Ratoblanco.

Li abbiamo sentiti a Gualdo Tadino (posto difficilissimo da raggiungere indipendentemente da quale sia il punto di partenza, ve lo assicuro) insieme ad altre band in una serata organizzata da Altrocioccolato, associazione impegnata nella promozione del commercio equo e solidale che senza polemiche propone una manifestazione alternativa negli stessi giorni della perugina Eurochocolate. Il gruppo di Colle Val d'Elsa è il secondo a esibirsi in un Palasport fumoso e pieno per tre quarti. La loro esibizione è a dir poco convincente, vengono proposti buona parte dei pezzi dell'ultimo disco e un pugno di brani del vecchio repertorio (su tutte Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) e un paio di omaggi agli ispiratori della band (una London Calling venuta benissimo, pulita e appassionata).Senza atteggiarsi a improbabili divi (viziuccio condiviso a mio parere da molte band locali), con la dovuta sicurezza e un invidiabile senso della misura, questi cinque ragazzi fanno musica (in studio ma soprattutto sul palcoscenico) prima di tutto per divertirsi e divertire, poi per far sentire quello che hanno da dire, in modo diretto, semplice ma non banale.Lunga vita ai "Rato".

Chiara Giani

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