A Milano il sole è alto. Le strade sono solcate da una selva di auto nevrotiche che duellano a colpi di claxon. Con le nostre biciclette aggiriamo il caos metropolitano, slalomiamo in mezzo a interminabili code e c’imbuchiamo in un vicolo ventilato e ombroso. Lungo la via, davanti a un negozio, incontriamo il noto giornalista-scrittore Michele Serra che sta conversando con un commesso. Lo riconosciamo. Lui ci saluta calorosamente e ci conduce nella sua enorme e fresca casa. Ci accomodiamo nel salone, lui ci offre del caffè e si siede davanti a noi, scrutandoci con occhi azzurri e vitrei che un po’ mettono soggezione, perché quello che ho di fronte ritengo sia lo sguardo più acuto del giornalismo italiano.
Come è approdato alla professione di giornalista?
Questa è la domanda con cui iniziamo sempre le nostre chiacchierate, perché, da giornalisti diciamo amatoriali, siamo molto curiosi di sapere come si riesca ad arrivare a questi livelli.
Il mio accesso alla professione è stato del tutto casuale. Ero un ventenne che aveva appena abbandonato la facoltà di lettere moderne presso la Statale di Milano e voleva guadagnare qualche soldo. Riuscii a farmi assumere come stenografo nella redazione dell’Unità e presi il posto di un ragazzo che era partito per il servizio militare; cominciai a fare la vita di redazione e iniziai a rompere le balle ai superiori perché volevo scrivere. Così ho cominciato la “scalata” nel mondo del giornalismo. Allora si faceva così, non c’erano altri modi. Ora è molto diverso.
Allude alle scuole di giornalismo?
Sì, certo: grazie al loro avvento l’accesso alla professione è più regolare, più sensato. Penso che se si vuole intraprendere questa strada si debba per forza passare per queste scuole. E’ una sorta di Via Maestra. Un biennio di specializzazione post-universitario di questo calibro può permetterti di entrare a far parte di una redazione. Ora si fa così. Allora era culo o raccomandazione.
Che “dritte” darebbe ai giornalisti in erba?
Mah, penso che non debbano avere una visione “romantica” della professione: come del classico inviato di guerra alla Hemingway, o di colui che fa solo scoop. In realtà è un percorso travagliato. Devi passare per mille carte e stronzate spesso noiose. All’inizio di solito è un lavoro da impiegato. Io ho perso un po’ di vista la redazione perché sono ormai quindici anni che lavoro in casa, e nel frattempo, per esempio, l’avvento di computer tecnologicamente sempre più sofisticati ha inciso molto. Oggi il lavoro del tipografo è quasi tramontato, è una categoria scomparsa. Ai tempi loro rappresentavano la parte “operaia” del giornale, e spesso erano soggetti a malattie professionali anche gravi. Erano a contatto tutto il giorno con il piombo fuso…insomma, quasi un’officina: c’era un baccano infernale, un caldo pazzesco, erano tutti sporchi di nero. .. Ma ora si sono estinti come i dinosauri.
Quali sono le differenze sostanziali, oltre quelle a carattere tecnico che ha già citato, tra i giornali di trent’anni fa e quelli attuali?
La mia impressione è che sia molto più forte il condizionamento economico pubblicitario; tutto il management conta moltissimo: oggi i giornali sono diventati delle imprese, macchine per fare soldi. Una volta i giornali li dirigevano i direttori, ora ho l’impressione che a dirigerli siano i manager. Poi si aggiunge anche questa mania dei gadget che è quasi grottesca, veramente: tu prova ad andare nell’edicola qui di fronte e vedrai che ti rifilano anche il matterello per fare la pasta, manca solo la carriola e la paletta poi siamo a posto.
L’iniziativa di allegare libri ai quotidiani invece come la trova?
A quanto ne so io si è rivelata un boom.Hanno messo in circolazione un numero esorbitante di buoni libri: non vorrei dire una cazzata ma penso abbia rappresentato il quaranta per cento del mercato librario, o giù di lì. Non si capisce bene se sia stata una concorrenza sleale a un mercato già asfittico, se pensate che in Italia legge solo un terzo della popolazione. Riflettiamo anche sul problema della distribuzione dei libri: la disparità fra Nord e Sud è enorme. Di librerie degne di questo nome ne esistono tre al sud: a Palermo, Bari e Napoli. Credo che il trentacinque per cento del mercato librario risieda a Milano. Anche i dati della diffusione dei quotidiani nel mezzogiorno sono sconcertanti: si è rilevato che ad Agrigento viene venduto un quotidiano ogni cento persone…e di sicuro sarà la Gazzetta…
A proposito di libri, la prima volta che ho sentito il suo nome fu grazie a Tutti Al Mare, che ho dovuto anche portare a un esame di letteratura.
Che onore! Beh, sì, ho un bellissimo ricordo di quel viaggio sulla riviera, con il mio Pandino quattro per quattro…
Gli porgo il libro di testo in cui è inserito un capitolo del suo libro. Lo sfoglia e nota tra gli altri il nome di Mario Soldati. Si illumina…
Ecco, casualmente ho trovato un argomento che vi potrebbe interessare. Soldati, all’epoca, fece un programma strabiliante per la Rai: tramite un viaggio lungo la Valle Padana, con la complicità della sua arguzia di intellettuale, riuscì sostanzialmente a raccontarci l’Italia del dopoguerra,…penso fosse il ’58…comunque, due anni fa volevamo riproporre una cosa del genere, ma la Rai non poteva coprire i costi; insomma oggi la Tv italiana non è in grado di produrre una trasmissione culturale. La censura vera, oggi, non è tanto quella politica, ma quella economica. Quella di oggi è una società sfigata. Una volta, con la Dc, nonostante tutto, si aveva un margine di investimento molto più elevato. Oggi è tutto risicato. Il fatto che non ci si possa più permettere di produrre trasmissioni culturali è scandaloso. Nessuno si vuole assumere più questa responsabilità. Adesso qualche programma culturale lo cacciano alla mattina, come Augias, per esempio…Ma quello che ci tengo a farvi capire, scusate se sono ripetitivo, è che non è la censura politica a rappresentare un problema, quella puoi anche dribblarla se sei brao, quanto la censura economica: se vuoi dire 'Berlusconi culo' in televisione, non te lo fanno fare non per motivi etico morali, ma perché non hanno i soldi. E se stai a badare ai soldi rischi di produrre la merda.
E lei come si trova a lavorare per la TV?
E’ un ambiente che sopporto sempre meno, anche se sto lavorando con Fazio alla trasmissione “Che Tempo Fa?” e mi trovo bene. Il programma si aggiudica il nove per cento degli ascolti, ma sta avendo successo di critica, perché comunque è pacato, non è volgare e dopotutto è abbastanza interessante. Ma anche lì si tentenna sempre. Si vorrebbe sempre di più. Ci si vorrebbe accaparrare un due per cento in più, ma sai, anche lì: vuol dire che lo sponsor deve cacciare altri svariati miliardi, insomma, è tutto soggetto a un mercantilismo sfrenato. E’ un sistema che sta implodendo su se stesso.
E nel teatro?
Lì le cose sono molto migliori. Il teatro è una sorta di microcosmo a parte. Libero. L’unico ghettizzato è Luttazzi, che ha accesso a metà dei teatri d’Italia, di cui solo uno in Lombardia. Ma io ho sempre lavorato in estrema libertà. Se pensiamo a ciò che dice Paolo Rossi in teatro…a “Domenica In” non gliele hanno fatte mica dire. Pensiamo ancora a “Mai Morti”, di Renato Sarti, è uno spettacolo potentissimo che tocca temi di preoccupante attualità, e ha avuto un enorme successo, sia di pubblico che di critica ed è pure uscito il testo per la Mondadori. Anche se ha avuto casini politici, Sarti è stato anche minacciato… Comunque, per quanto riguarda i costi, beh, è tutt’altra cosa rispetto alla TV o al cinema. Penso che uno spettacolo teatrale costi un quinto rispetto a un film. Insomma è tutto abbastanza autonomo. Spero che continui così. Ma non diciamolo troppo forte.
Luca Ottolenghi
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